Il recesso in una società di capitali avente una durata eccedente quella della vita media dei soci
di Eleonora Giacometti, AvvocatoParole chiave: Società di capitali – Società per azioni – recesso – recesso ad nutum – società a tempo indeterminato – durata della società
Massima: in una società per azioni è escluso il diritto di recesso ad nutum del socio nel caso in cui lo statuto preveda una durata prolungata della società (ad esempio fino al 2100), non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella prevista dall’art. 2437 c. 3° c.c. applicabile alle società costituite a tempo indeterminato. Ciò in quanto occorre necessariamente fornire un’interpretazione restrittiva delle cause che legittimano la fuoriuscita del socio dalle società di capitali, in relazione alle quali prevalgono esigenze di tutela dell’interesse dei creditori al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo su tale garanzia.
Disposizioni applicate: artt. 2437 c.c., 2437 quater c.c., 2473 c.c.
Con il giudizio in esame il socio di una S.p.A. ha chiesto al Tribunale delle Imprese di Milano di accertare la validità del recesso da lui esercitato ai sensi dell’art. 2437 c. 3° c.c. essendo la durata della società fissata al 31 dicembre 2100, ossia una durata eccedente la presumibile permanenza in vita del socio medesimo e sostanzialmente non determinata in relazione ad un reale progetto imprenditoriale.
Secondo il socio recedente era dunque applicabile la disciplina del recesso ad nutum dettata per le società aventi una durata indeterminata e di tale questione ne è stato richiesto l’accertamento, eventualmente previa rimessione alla Corte Costituzionale della questione di costituzionalità sollevata con riguardo all’applicazione della suddetta norma che, ove interpretata restrittivamente sarebbe in contrasto con gli articoli 18 e 41 della Costituzione a tutela della libertà di associazione e di impresa.
A sostegno della propria tesi il socio recedente ha poi richiamato i precedenti orientamenti di legittimità (ad esempio la pronuncia della Corte di Cassazione n. 9662/2013) e di merito (come l’ordinanza cautelare del Tribunale Milano del 30 giugno 2018), formulando infine diverse conclusioni sulla determinazione del valore della propria quota, ai sensi dell’art. art. 2437 quater c.c. avente, appunto, ad oggetto il procedimento di liquidazione delle azioni del socio recedente.
La società convenuta si è quindi costituita in giudizio sostenendo il carattere abusivo del recesso esercitato dal socio attore e, in ogni caso, l’inapplicabilità della disciplina ex art. 2347 c. 3° c.c. in quanto dettata unicamente per le società costituite a tempo indeterminato.
All’esito di tale contraddittorio il Tribunale delle Imprese di Milano ha evidenziato il proprio cambio di orientamento rispetto a quello precedentemente adottato nel 2018 e citato dall’attore; trattasi, in particolare, di un cambio di rotta già affermato con le sentenze del 19 giugno 2019 e del 23 giugno 2020 (quest’ultima confermata anche dalla Corte d’Appello di Milano), e poi espresso anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 4716/2020.
Tale orientamento, che può ormai considerarsi consolidato, si basa sul fatto che:
i) gli articoli 2437 c.c. e 2473 c.c. in tema di società di capitali non consentono, a differenza dell’art. 2285 c.c. applicabile alle società di persone, il diritto di recesso da una società avente una durata eccessiva se proporzionata alla vita media dell’uomo; si deve pertanto escludere un’applicazione analogica dell’art. 2285 c.c. alle società di capitali, e còi anche per il fatto che in queste ultime prevalgono esigenze di tutela dell’interesse dei creditori al mantenimento dell’integrità del patrimonio sociale, potendo essi fare affidamento solo su tale garanzia (diversamente dalle società di persone ove i creditori possono contare anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili); e
ii) non è in ogni caso ricavabile nel nostro sistema normativo un parametro oggettivo predefinito per la valutazione dell’abnormità della durata statutaria, non potendo essere tale né la durata della vita media dell’uomo (considerata, come detto, rilevante solo con riguardo alle società di persone), né la tipologia dell’oggetto sociale che è normalmente riferito ad attività imprenditoriali suscettibili di uno sviluppo a tempo indeterminato.
L’orientamento da adottare con riguardo all’interpretazione delle norme sul recesso dalle società di capitali è dunque restrittivo, ed è quindi illegittimo un recesso esercitato unicamente in forza di una durata statutaria fino al 2100 di una società avente ad oggetto un’attività comunque passibile di sviluppo in un tempo indeterminato.
Il Tribunale ha inoltre dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale con riguardo alla lettura restrittiva dell’art. 2437 c.c. c. 3° c.c. per contrasto con gli articoli 18 e 41 della Costituzione. Ciò per il fatto che il requisito della durata al 2100 della società, unitamente alle caratteristiche di ristrettezza della compagine societaria e della limitazione alla circolazione delle azioni, sono state tutte espressamente accettate dai soci al momento dell’ingresso nell’ente mediante una delibera assembleare assunta all’unanimità con il voto favorevole anche del socio attore.
Ciascun socio, l’attore compreso, ha quindi liberamente scelto di far parte per lungo tempo di una società avente regole statutarie miranti a mantenerne “chiusa” la compagine, con ciò non essendo quindi ravvisabile alcuna violazione delle libertà costituzionali.
Il Tribunale ha quindi concluso rigettando la domanda attorea, compensando però le spese di lite per il fatto che l’orientamento espresso in sentenza è mutato e si è consolidato solo dopo l’introduzione del giudizio e nelle more dello stesso.
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