30 Novembre 2021

Inadempimento reciproco e risoluzione del contratto preliminare di compravendita di immobile

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. II, ord. 09.07.2021 n. 19569 – Pres. San Giorgio – Rel. Tedesco

Contratto in genere – Risoluzione del contratto per inadempimento – Contrapposte domande di risoluzione – Gravità dell’inadempimento – Pronuncia di impossibilità di esecuzione del contratto

(artt. 1453 c.c., 1455 c.c., 1458 c.c., 2033 c.c.)

[1] Gli effetti restitutori conseguenti alla risoluzione si verificano sia in caso di risoluzione per inadempimento del promittente venditore, sia in caso di risoluzione per inadempimento del promissario, in quanto conseguenti al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite e si verificano indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempimento.

[2] La risoluzione comporta l’insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell’obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. In base a tale regola il promissario acquirente, il quale abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipata del bene promesso in vendita, deve non solo restituirlo al promittente alienante, ma deve altresì corrispondere a quest’ultimo i frutti per l’anticipato godimento dello stesso.

CASO

Tizio citava in giudizio Caio, assumendo che questi, con contratto preliminare del 2006, gli aveva promesso in vendita un appartamento in costruzione per il prezzo di € 110.000,00; che in conseguenza di detto contratto, il promittente acquirente aveva versato, a titolo di caparra confirmatoria, la somma di € 20.000,00.

La stipulazione del contratto definitivo, inizialmente stabilita per il 30.04.2007, aveva subìto numerosi ritardi per fatti imputabili al promittente venditore, che, convocato dinnanzi al notaio, non aveva fornito la documentazione necessaria al trasferimento del bene.

Il promittente alienante aveva, tuttavia, immesso il promittente acquirente nella disponibilità dell’immobile a far data da gennaio 2008.

L’attore, promissario acquirente, chiedeva, pertanto, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore e la restituzione del doppio della caparra.

Con la costituzione in giudizio, il promittente alienante chiedeva in via riconvenzionale l’esecuzione ex art. 2932 c.c. del contratto preliminare ed altresì chiedeva, in ipotesi di accoglimento della domanda attorea, il rilascio dell’immobile ed il risarcimento del danno per occupazione abusiva.

Il Giudice di prime cure accoglieva le conclusioni dell’attore, accertando la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, che condannava alla restituzione della caparra ed altresì condannava l’attore al rilascio dell’immobile ed alla restituzione al promittente venditore di una somma per lavori aggiuntivi.

Avverso la sentenza di primo grado, il convenuto proponeva appello, modificando la domanda e chiedendo la risoluzione in luogo dell’adempimento chiesto in primo grado.

La Corte d’appello accoglieva l’impugnazione, ritenendo che l’inadempimento del venditore, pur essendo idoneo ex art. 1460 c.c. a giustificare il rifiuto del promittente acquirente, non era tuttavia tale da giustificare la richiesta di risoluzione del promissario; allo stesso modo, neppure il promittente venditore poteva pretendere la risoluzione, stante che la controparte non era inadempiente.

In sede di gravame, tuttavia, veniva confermata la risoluzione pronunciata in primo grado, posto che entrambi i contraenti non volevano l’esecuzione del contratto, e dichiarato che la medesima non poteva avere effetto retroattivo ex art. 1458 c.c., sicché gli effetti della pronuncia non potevano farsi decorrere da un momento anteriore a quello della proposizione della domanda di risoluzione, avanzata solo in appello. Di conseguenza, doveva negarsi al promittente venditore la pretesa indennità di occupazione dell’immobile de quo.

Il promittente venditore adiva la Suprema Corte per la cassazione della sentenza, articolando un unico motivo di ricorso, con cui lamentava la violazione degli artt. 1453 c.c. e 1458 c.c., ritenendo che l’errore in cui era incorso il giudice di merito consisteva nell’avere affermato che l’efficacia della risoluzione non potesse farsi decorrere da un tempo anteriore alla proposizione della domanda. Il ricorrente sosteneva che il principio di cui all’art. 1458 c.c. fosse operante anche nella fattispecie in esame, caratterizzata dalla contrapposizione di reciproche domande di risoluzione, entrambe riconosciute fondate.

Di conseguenza, la Corte di merito non avrebbe dovuto disconoscere, a favore del promittente venditore, le conseguenze che derivano dalla risoluzione di un preliminare con consegna anticipata della cosa promessa in vendita.

SOLUZIONE

Il Giudice che, in presenza di reciproche domande di risoluzione fondate da ciascuna parte sull’ inadempimento dell’altra, accerti l’inesistenza dei singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta, ex art. 1453, 2° co., c.c., di entrambi i contraenti e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 1458 c.c.

QUESTIONI

L’ordinanza che si annota costituisce l’occasione per compiere un breve excursus degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in relazione alla sorte del contratto di fronte alla reciproca richiesta delle parti di risoluzione dello stesso.

Un primo e risalente orientamento è riconducibile alle Sezioni Unite (Cass. civ., SS.UU., 15.01.1983 n. 329), secondo cui, laddove il giudice debba decidere su contrapposte domande di risoluzione per mancato rispetto delle obbligazioni assunte, questi può scegliere se accogliere l’una o l’altra ma non può respingerle entrambe e dichiarare lo scioglimento del rapporto per mutuo dissenso, giacché in tale ipotesi violerebbe il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.).

Le Sezioni semplici, tuttavia, negli anni, si sono più volte discostate da tale assunto, affermando che la proposizione di contrapposte domande di risoluzione per inadempimento costituiscono espressione di un mutuo dissenso (Cass. civ., 29.04.1993, n. 5065).

Tale ultimo orientamento non è andato esente da critiche, giacché non poteva trascurarsi che la sentenza, pronunciata in esito all’accertamento del mutuo dissenso, ha natura dichiarativa mentre la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 1453 c.c. ha natura costitutiva. Inoltre, il mutuo consenso produce effetti estintivi ex nunc, mentre la risoluzione produce effetti retroattivi (ex tunc).

La giurisprudenza successiva (Cass. civ., 03.07.2013, n. 16637; Cass. civ., 18.05.2005, n. 10389) ha affermato che nei casi in cui il giudice ritenga non sussistente, per alcuna delle parti, il grave adempimento ex art. 1455 c.c. e laddove, pertanto, non possa dichiarare la risoluzione del contratto per inadempimento, deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto, per effetto della manifestazione di volontà di ambedue le parti di non eseguire le rispettive obbligazioni, e provvedere sulle domande restitutorie proposte dalle medesime.

Anche tale orientamento, tuttavia, non è stato scevro da criticità: infatti, l’impossibilità di esecuzione del contratto nasconderebbe una risoluzione per mutuo dissenso. E così ragionando, non vi sarebbe differenza alcuna tra le pronunce che fanno espressamente riferimento al mutuo dissenso e quelle che tralasciano di menzionarlo, affermando che il giudice deve prendere atto dell’impossibilità di esecuzione contrattuale e conseguentemente decidere sugli effetti risolutori ex art. 1458 c.c.

Più di recente, la Corte di Cassazione (Cass. civ. 17.07.2017, n. 17665) è tornata ad aderire all’originario principio enunciato dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 329/1983, secondo cui il giudice, adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento, può accogliere l’una e rigettare l’altra ma non può respingere entrambe e dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, posto che ciò implicherebbe una violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto diversa da quella perseguita dalle parti.

L’orientamento appena esposto è l’unico che non presenta profili di incompatibilità con la corretta applicazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Un altro aspetto della questione, su cui tuttavia l’ordinanza in commento non si sofferma, è quello di stabilire su chi gravi l’onere della prova nell’inadempimento reciproco.

Sul punto la giurisprudenza (Cass. civ., 30.10.2001, n. 13533) ha affermato il principio secondo cui il creditore che agisca per la risoluzione del contratto deve unicamente provare la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte; mentre sul debitore convenuto grava l’onere della prova del fatto estintivo della pretesa altrui, costituito dall’avvenuto adempimento.

Altro aspetto, rilevante nell’ipotesi di reciproche domande di risoluzione, è rappresentato dalla “non scarsa rilevanza dell’inadempimento”, con riguardo all’interesse dell’altra parte, che deve essere considerata in base al parametro della proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, sulla cui valutazione appare decisiva la valutazione del giudice.

Si è consolidato in giurisprudenza di legittimità l’indirizzo secondo cui “nei contratti a prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche, il giudice di merito è tenuto a formulare un giudizio di comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti a causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale” (Cass. 3 luglio 2013, n. 16637).

Tornando all’ ordinanza in commento, nella motivazione la Suprema Corte richiama due diversi indirizzi: il primo secondo cui in presenza di reciproche domande di risoluzione, fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell’altra, il giudicenon potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta, ex art. 1453, co. 2°, c.c., di entrambi i contraenti e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 1458 c.c.” (Cass. civ., 19.03.2018, n. 6675; Cass. civ., 18.05.2005, n. 10389) e l’altro secondo cui “quando i contraenti richiedano reciprocamente la risoluzione del contratto, ciascuno attribuendo all’altro la condotta inadempiente, il giudice deve comunque dichiarare la risoluzione del contratto, atteso che le due contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, in considerazione delle premesse contrastanti, sono tuttavia dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale” (Cass. civ., 21.09.2020, n. 19706, Cass. civ., 19.12.2014, n. 26097).

Le massime in questione si limitano a stabilire la risoluzione del contratto, senza alcuna valutazione dell’importanza dei contrapposti inadempimenti, al fine di stabilire quali di essi sia prevalente. Talché la Suprema Corte, che a dette massime aderisce, si limita, nel caso di specie, a dare rilievo alle sole manifestazioni di volontà delle parti, in quanto “dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto”.

È evidente che manca, nel caso portato all’esame degli Ermellini, il giudizio di comparazione tra gli inadempimenti e ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, il giudizio sulla gravità oppure non dell’inadempimento spetta al giudice di merito e, laddove sorretto da adeguata motivazione ed immune da vizi logici e giuridici, è incensurabile in sede di legittimità.

Escludendo la necessità di tale valutazione, l’ordinanza che si annota si pone in contrasto con l’orientamento preferibile, che lo richiede in ogni caso, secondo quanto disposto dall’art. 1455 c.c., secondo cui il contratto non può essere risolto in presenza di un inadempimento di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte.

La Corte dà poi rilievo alla restituzione ex art. 2033 c.c., ribadendo il principio per cui l’effetto restitutorio dei frutti indebitamente percepiti debba decorrere da un momento precedente alla proposizione della domanda giudiziale.

Pertanto, la Corte di merito era incorsa in errore nel momento in cui aveva sottratto la fattispecie alla regola per cui la risoluzione comporta l’insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell’obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione sull’indebito ex art. 2033 c.c.

In base a tale regola, il promissario acquirente, che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipate del bene promesso in vendita, deve non solo restituirlo al promittente alienante ma deve, altresì, corrispondere a quest’ultimo i frutti per l’anticipato godimento dello stesso.

Tali effetti si verificano sia in caso di risoluzione per inadempimento del promittente venditore, sia in caso di risoluzione per inadempimento del promittente acquirente.

Ed in quanto conseguenti al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, essi si verificano indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempimento.

Centro Studi Forense - Euroconference consiglia

“Sblocco” dei licenziamenti: licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage