La nullità di una clausola di opzione put per violazione del divieto di patto leonino in caso di esclusione dalle perdite sociali
di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDFCorte d’Appello di Milano – Sentenza n. 1195/2020 pubblicata il 20 maggio 2020
Parole chiave: opzione put – cessione di quote – patto leonino – società di capitali – società a responsabilità limitata
Massima: la previsione di un’opzione put che, nel contesto di una più ampio meccanismo contrattuale, consenta ad un socio di essere sempre escluso dalla partecipazione alle perdite, e ciò anche nel caso di perdita integrale di capitale sociale ed azzeramento del valore della partecipazione sociale, costituisce un’ipotesi di violazione del divieto di patto leonino e di deroga non consentita della funzione del contratto associativo (come indicata nell’art. 2247 c.c. che richiede il conferimento “di beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” e, simmetricamente, le perdite).
Disposizioni applicate: articoli 2256 c.c., 1322 c.c., 2247 c.c., 2392 c.c.
Nel giudizio in esame si controverte in merito alla pretesa di un socio di una S.r.l. di azionare un patto parasociale stipulato con il socio convenuto, ed in particolare il proprio diritto di opzione put relativo alla cessione di un numero di quote pari del 12,5% del capitale della S.r.l., mediante la pronuncia di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.
Più nel dettaglio, la clausola di opzione put prevedeva (i) l’impegno del socio attore a sottoscrivere un aumento di capitale della società per euro 250.000,00 e, dopo 3 anni, (ii) il diritto di tale socio di cedere, entro un determinato periodo di due mesi, la propria intera partecipazione nella società, con contestuale impegno del socio convenuto di acquistare tale partecipazione ad un prezzo convenzionalmente stabilito, quantificato nell’importo maggiore tra quello di Euro 325.000,00 e un secondo importo derivante da una formula matematica avente ad oggetto l’EBITDA e la posizione finanziaria netta della società.
Tale opzione è stata in concreto esercitata ad un prezzo d’acquisto delle quote pari ad Euro 325.000,00, essendo tale importo superiore a quello derivante dalla suddetta formula, il cui risultato era negativo, essendo nel frattempo fallita la società le cui quote erano oggetto di cessione.
Il socio convenuto in giudizio dinnanzi al Tribunale delle Imprese di Milano aveva tuttavia eccepito, tra l’altro, la nullità dell’opzione put per contrasto con il divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c., posto che tale clausola, a fronte di un investimento complessivo dell’attore pari ad euro 295.000,00, avrebbe consentito a quest’ultimo la cessione delle quote ad un prezzo di Euro 325.000,00, addirittura maggiore rispetto all’investimento iniziale, peraltro in un momento in cui la società era ormai del tutto inattiva, ed, anzi, si trovava già in uno stato di insolvenza.
A fronte di una sentenza di primo grado che aveva ritenuto l’insussistenza della violazione del divieto di patto leonino, la Corte d’Appello di Milano è ritornata sulla questione riformando l’esito della prima pronuncia sulla base della ratio del suddetto patto, che è quella di preservare “la purezza della causa societis”, evitando che un socio possa essere escluso dagli utili o dalle perdite, ciò che lo indurrebbe a disinteressarsi di una corretta e proficua gestione della società (come affermato anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 8927/1994).
Il divieto di patto leonino ha infatti anche la funzione di garantire la correlazione tra il potere di amministrare l’impresa e l’assunzione del rischio inerente alla gestione della medesima.
Sulla base di tale principio, la Corte ha rinvenuto un’alterazione della causa societatis – così come descritta nell’art. 2247 c.c. che richiede il conferimento “di beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili” e, simmetricamente, le perdite – essendo il socio che ha esercitato l’opzione di put di fatto escluso dalle perdite della società, ed essendogli addirittura garantita una plusvalenza persino nel caso azzeramento del capitale sociale e di fallimento della società.
Non si trattava infatti di considerare la sola clausola in questione (come aveva fatto il Giudice di prime cure), ma occorreva valutare l’intero meccanismo dell’accordo parasociale che, se esaminato nel suo complesso e nell’interezza delle sue previsioni, assicurava sempre e comunque al socio titolare dell’opzione di put la possibilità di beneficiare degli eventuali utili della società senza sopportare le perdite. Ciò avveniva attraverso la previsione di altre plurime opzioni di put e di call, che potevano essere esercitate in base all’andamento dell’impresa, con possibilità di “aggiustamenti” per consentire al socio di acquistare altre quote al solo valore nominale, oltre che attraverso l’applicazione, nel caso di ricapitalizzazione della società, di diverse clausole antidiluizione che lo avrebbero protetto dal rischio di diluire la propria partecipazione in caso di delibere di aumento del capitale.
In definitiva, secondo la Corte dall’esame complessivo del patto parasociale si desumeva un esonero assoluto e costante dalla sopportazione delle perdite, con elusione del divieto di patto leonino e, per tale ragione, è stata quindi accolta l’impugnazione e dichiarata la nullità dell’opzione put.