Sulla possibilità di notificare telematicamente un atto giudiziario relativo ad un contenzioso estraneo all’attività professionale del destinatario, all’indirizzo pec risultante dai Pubblici Registri
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF“…Omissis… osservato che parte ricorrente ha chiesto rinvio per rinnovo della notifica autorizzando il ricorrente a notificare gli atti all’indirizzo pec, come reperito, in luogo della notifica ai sensi dell’articolo 143 cpc e rilevato che la detta autorizzazione appare allo stato preclusa dalla mancanza di prova di collegamento del rapporto negoziale oggetto di causa con l’attività professionale del resistente…Omissis” (Ordinanza Tribunale di Bologna 7.7.21, inedita)
Com’è ormai ben noto a chi svolge la professione forense, a decorrere dal 31 gennaio 2012, quasi tutti gli atti riguardanti un processo civile possono essere notificati in proprio da qualsiasi avvocato che a) possegga una firma digitale in corso di validità; b) sia titolare di un indirizzo PEC censito nel REGINDE; c) sia munito di una procura alle liti ex art. 83 c.p.c.; d) abbia estratto l’indirizzo PEC del destinatario da un pubblico elenco idoneo alla notificazione via posta elettronica certificata.[1]
Quella appena menzionata è un’innovazione rilevante che ha permesso di snellire il carico di lavoro degli uffici giudiziari, di garantire una celere instaurazione dei giudizi civili e, auspicabilmente, una riduzione dei tempi di risoluzione degli stessi nonché un importante risparmio sui costi del processo.
A circa dieci anni dall’entrata in vigore della legge 12 novembre 2011 n. 44, infatti, si può confermare che il novello sistema di notificazione telematica ha reso il lavoro degli avvocati più agevole e ha sensibilmente ridotto le occasioni di intervento ante iudicium degli uffici giudiziari.
L’auspicio per il prossimo futuro, dunque, è che un’innovazione come questa sia ancor meglio implementata e potenziata, al fine di condurre ad una smaterializzazione definitiva degli atti del processo, senza per questo rinunciare alle garanzie fondamentali del contraddittorio e dell’oralità, in alcun modo violate dall’informatizzazione dei fascicoli. È desiderabile, in altri termini, che una tale rivoluzione nel sistema delle comunicazioni tra cittadini e amministrazione della giustizia sia foriera della definitiva modernizzazione del settore processuale civile, ambito che, nel nostro Paese, pecca ancora di una certa vetustà e farraginosità[2].
Nonostante gli innumerevoli pregi, tuttavia, la possibilità offerta agli avvocati di notificare in proprio può essere messa in discussione dalla prassi applicativa quotidiana e dalla specificità di alcune peculiari situazioni.
Tentando di rendere più chiaro ciò che si vuole argomentare, si può riportare un caso che si è recentemente presentato all’attenzione di chi scrive: si era reso necessario notificare alla controparte, un professionista munito di pec, un ricorso ex art. 447 bis c.p.c., per una controversia estranea alla sua attività professionale.
Orbene, la soluzione ad un tale “rompicapo giuridico” appariva, prima facie, semplice ed immediata: notificare ex art. 149 bis c.p.c., essendo il destinatario dell’atto un soggetto obbligato a possedere un indirizzo PEC.
In altri termini, una volta individuato con esattezza l’indirizzo di posta elettronica certificata del professionista, una notifica telematica avrebbe risolto gran parte dei problemi conseguenti alla precedente intervenuta notifica ai sensi dell’articolo 140 cpc e conseguente alla restituzione della cartolina con indicazione di “irreperibilità”: da un lato, infatti, l’irreperibilità fisica del convenuto al suindicato indirizzo, attraverso la notifica tradizionale, non sarebbe corrisposta ad una irreperibilità assoluta del medesimo, stante la conclamata e certificata esistenza del suo “domicilio digitale”; dall’altro il professionista de quo avrebbe ben potuto trarre vantaggio da una notificazione telematica, la quale ha il non trascurabile pregio di garantire una consultazione immediata e diretta dell’atto a lui destinato.
Ciò nondimeno, il tribunale di Bologna, con l’ordinanza in epigrafe, ha ritenuto non conformarsi ad un orientamento pratico e pragmatico, ricorrendo al paradigma che l’utilizzo della notifica telematica all’indirizzo pec noto del resistente sarebbe: “allo stato preclusa dalla mancanza di prova di collegamento del rapporto negoziale oggetto di causa con l’attività professionale del resistente”.
Sennonché, per risolvere una così delicata questione, ove si intrecciano interessi contrapposti (da un lato l’interesse alla ragionevole durata del processo civile ex art. 111 Cost. e alla conoscenza degli atti del procedimento in cui si è coinvolti; dall’altro, il rischio di richiedere al destinatario dell’atto un dovere di fare “sproporzionato”, tenuto conto della sua posizione professionale/lavorativa), non è sufficiente percorrere immediatamente la strada che appare più pervia, essendo necessario compiere una ponderazione costi/benefici molto più approfondita (anzitutto, sia chiaro, al fine di evitare l’infelice esito giudiziario della vicenda).
Si è allora presa in considerazione l’unica alternativa esistente alla notifica telematica, e cioè quella tradizionale della notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti ex art. 143 c.p.c. Un’opzione, questa, che avrebbe il pregio di non provocare tumulti nella giurisprudenza di merito e che avrebbe condotto chi scrive ad un esito favorevole della vicenda.
Purtuttavia, una notifica siffatta, apparentemente foriera di vantaggi estesi, rischia di pregiudicare tutti gli interessi in gioco: certamente quelli della parte ricorrente, il cui interesse a riscuotere i crediti di sua spettanza rischierebbe di essere vanificato dall’eccessivo prolungamento dei tempi del giudizio; ma anche quelli della parte notificata, le cui probabilità di conoscere effettivamente l’atto notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c. sarebbero ridotte (si consideri che tale norma prevede una serie di presunzioni di conoscenza, assolte attraverso il deposito di una copia dell’atto nella casa comunale dell’ultima residenza o addirittura in quella del luogo di nascita del destinatario); infine e più in generale, quelli della stessa amministrazione della giustizia, la quale avrebbe l’onere di sopportare un costo maggiore, un inutile aggravio dei tempi di risoluzione della controversia, nonché la concreta possibilità di dover provvedere a riparare i danni occorsi ai cittadini per l’irragionevole durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. legge Pinto).
Nonostante gli evidenti vantaggi che una notificazione telematica comporterebbe, dunque, non si può sottovalutare il rischio che una pronuncia sfavorevole vanifichi gli sforzi ermeneutici di avvocati e operatori forensi.
Ed in effetti in questa direzione stanno già muovendosi i tribunali le corti del nostro Paese: il Tribunale di Roma, ad esempio, con Ordinanza del 26 gennaio 2019, ha avuto modo di dichiarare la nullità della notifica dell’atto di citazione all’indirizzo di posta elettronica certificata di un professionista. Il collegio romano ha ritenuto che, nel caso in cui professionisti od imprenditori ricevano sulla casella PEC della loro attività economica una notificazione telematica riferita ad un contenzioso estraneo all’impresa o professione esercitata, la notifica può ritenersi perfezionata solo allorché quello stesso indirizzo PEC rappresenti il domicilio elettivo della parte.[3]
Com’è ovvio, tale pronuncia non è l’unica ad essersi attestata su tali posizioni, rappresentando soltanto il segno superficiale di un consolidato orientamento della giurisprudenza di merito. Orientamento che, ad opinione di chi scrive, si presta a diversi argomenti di confutazione.
In primo luogo, è noto che, ai sensi del decreto legge n. 179/2012, le società iscritte al registro delle imprese, le pubbliche amministrazioni e i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato sono obbligati a dotarsi di una casella di posta elettronica certificata. Ma v’è di più: l’obbligo per i menzionati soggetti di dotarsi di un sistema P.E.C. ex d.l. 179/2012 non implica unicamente la necessità di predisporre una casella abilitata all’invio e alla ricezione certificata di messaggi, avendo un contenuto ben più ampio. Secondo l’autorevole opinione della Cassazione, infatti, l’imprenditore e il professionista, hanno il dovere “di assicurarsi del corretto funzionamento della propria casella postale certificata […] oltre che di controllare prudentemente la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come posta indesiderata”.[4]
La giurisprudenza di legittimità, in altre parole, ha già avuto modo di statuire che l’obbligatorietà della P.E.C. per professionisti ed imprenditori si traduce nel dovere di controllare la posta in arrivo, senza che tali attività “possano integrare oneri straordinari di diligenza”.[5]
Or dunque, l’obbligo incombente sul professionista di controllare la posta in arrivo non può ritenersi limitato alle e-mail strettamente dipendenti dalla sua attività professionale, per la semplice ragione che la casella di posta elettronica è un’entità informatica unitaria che raggruppa i messaggi non già in base alla pertinenza con l’attività svolta, ma in base alla data di ricezione degli stessi. Dunque, se il professionista è obbligato a consultare la sua casella elettronica, sarà obbligato a consultarla in ogni sua parte, non tralasciando alcuno dei messaggi ivi contenuti.
Pur potendosi, dunque, astrattamente sostenere l’irritualità di una notificazione siffatta, l’art. 156 c.p.c. prevede la sanatoria nel caso in cui l’atto nullo abbia raggiunto lo scopo cui è destinato.
Orbene, dal momento che lo scopo precipuo dell’atto, ricorso ex art. 447 bis c.p.c. (e, più in generale, degli atti che instaurano un giudizio civile) non è la costituzione della parte notificata ma la conoscenza da parte della stessa dell’atto notificato e che l’art. 156 c.p.c. stabilisce l’impossibilità di pronunciare la nullità di un atto del procedimento se l’atto medesimo ha raggiunto lo scopo cui è destinato, risulta evidente l’incongruità del summenzionato orientamento giurisprudenziale: l’asserita irritualità di una notificazione ex art. 447 bis c.p.c. per un contenzioso estraneo all’attività del professionista coinvolto (peraltro qui non condivisa, in quanto in nessuna norma è dato riscontrare un espresso divieto in tal senso) non ne comporta la nullità, dal momento che l’avvenuta consegna del messaggio nella casella di posta elettronica certificata del destinatario determina, al pari di una lettera raccomandata, una presunzione di conoscenza che può essere vinta solo a patto che si dimostri l’incolpevole impossibilità di averne notizia (art. 1335 c.c.).
In secondo luogo, risulta difficilmente tollerabile, in un ordinamento costituzionale che riconosce ai suoi cittadini il diritto alla ragionevole durata del processo civile e alla conoscenza degli atti dello stesso (art. 111 Cost.) e che addirittura ripara i danni che questi subiscono in conseguenza dell’irragionevole durata dei processi (vd. la c.d. legge Pinto), anteporre alla celere definizione del processo medesimo e alla piena conoscenza, da parte del convenuto, degli atti che lo compongono, le impalpabili esigenze di un “garantismo”, retaggio di una concezione non moderna e, per di più, nocivo per la parte che da tale assetto normativo dovrebbe trarre tutela.
L’esito scaturente dall’impossibilità di notificare gli atti processuali civili presso il domicilio digitale della persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti, infatti, è l’applicazione tout court dell’art. 143 c.p.c. e la conseguente attivazione di un procedimento lungo e dispendioso che, per di più, non garantisce in alcun modo la conoscenza dell’atto da parte del destinatario.
A fronte di tali considerazioni, non possiamo che augurarci un cambio di orientamento da parte della giurisprudenza di merito, magari stimolata dai più recenti esiti dottrinali e dall’autorevole intervento della Cassazione.
Chi scrive è ben consapevole del fatto che la telematizzazione del processo è un fenomeno inarrestabile e foriero di molte novità incoraggianti ma anche di pericolosi e semplicistici salti nel vuoto. Ciò che si ritiene necessario, tuttavia, non è un’informatizzazione tout court del processo ma una graduale smaterializzazione dei documenti che lo compongono e delle “consegne a mano” che lo caratterizzano.
Specie in ambito civile (diverso è il discorso per il processo penale, ove la compromissione di alcuni diritti fondamentali della persona necessita di una cautela esponenzialmente maggiore) le innovazioni tecnologiche necessitano di una graduale e controllata introduzione nel sistema processuale, al fine di garantire che il processo non si attardi rispetto alle rapidissime evoluzioni sociali ed economiche.
Ad opinione di chi scrive, solo un Paese capace di favorire la celere risoluzione delle controversie civili (anche mediante l’impiego di moderne ed efficienti tecnologie) può ambire alla crescita economica e al benessere dei suoi cittadini.
Per concludere, sarebbe opportuno chiedersi se possa davvero considerarsi sconosciuto il domicilio di chi risulti obbligato a possedere un indirizzo di posta elettronica certificata, costituendo quest’ultimo una sorta di “estensione tecnologica” degli spazi vitali della persona, e se sia lecito, al fine di tutelare il destinatario di un atto, ledere il suo diritto di conoscere l’atto medesimo. Oltre al danno del prolungamento dei tempi processuali, dunque, la beffa dell’aver affievolito le garanzie poste a tutela del convenuto. Una situazione, insomma, che non salvaguarda la posizione economico/giuridica di alcuno e che necessità, pertanto, di una rimeditazione in tempi rapidi.
[1] Tra i tanti, in via autoreferenziale, si cita: D’Ancona-Luppino, Dallo sfratto alla riconsegna del processo locatizio”, Maggioli , 2014.
[2] Il recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, né è fulgido esempio, specie sulle risorse messe in campo per la riforma della giustizia.
[3] Tribunale di Roma, Sezione VI Civile, Ordinanza 26 gennaio 2019.
[4] Cassazione civile, Sez. L., Sentenza 21.05.2018, n. 12451.
[5] Ibid.
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