Revocatoria fallimentare: l’espressione “termini d’uso” si riferisce ai soli pagamenti e non alle forniture
di Francesca Scanavino, Avvocato e Assistente didattico presso l’Università degli Studi di Bologna Scarica in PDFCassazione civile, Sezione I, Ordinanza n. 19373 del 7 luglio 2021.
Parole chiave: revocatoria – termini d’uso – esenzione – interpretazione – criterio teleologico – criterio letterale – pagamenti – forniture –
Massima:
In tema di revocatoria fallimentare, ai fini dell’operatività dell’esenzione prevista ai sensi dell’art. 67 c. 3 lett. a) L. Fall., l’espressione “termini d’uso”, utilizzata per individuare i pagamenti di beni e servizi non soggetti all’azione revocatoria, non si riferisce alle forniture che costituiscono oggetto del pagamento, ma ai pagamenti stessi, i quali risultano quindi opponibili alla massa dei creditori, anche se eseguiti ed accettati difformemente dalle previsioni contrattuali, purché siano stati effettuati secondo tempi e modalità corrispondenti a quelli che hanno caratterizzato il rapporto tra le parti nel suo concreto svolgimento.
Disposizioni applicate: art. 67 Legge Fallimentare
La controversia in esame prende le mosse dalla domanda di revocatoria fallimentare, ai sensi dell’art. 67 c. 2 L. Fall, sollevata dalla società Alfa rispetto ai pagamenti effettuati a favore della società Beta tra i mesi di aprile e maggio 2009.
La domanda è stata accolta in primo grado e poi confermata dalla Corte d’Appello di Trieste, che non ha ritenuto sussistere l’esenzione prevista ai sensi dell’art. 67 c. 3 lett. a) L. Fall., dato che, nel suddetto arco temporale, i pagamenti erano stati effettuati in modo del tutto difforme rispetto al passato, con conseguente alterazione dei termini d’uso.
Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione la società Beta, la quale ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 67 c. 3 lett. a) L. Fall. e dell’art. 12 preleggi, per aver la sentenza impugnata ritenuto che l’esenzione dalla revocatoria fallimentare operasse soltanto per i pagamenti effettuati negli stessi termini precedentemente vigenti tra le parti, senza tener conto del fatto che la locuzione “termini d’uso” fosse riferibile tanto ai pagamenti quanto alle forniture di beni e servizi, risultando pertanto sufficiente, ai fini dell’esenzione, verificare che le forniture richieste dalla società in crisi rispondessero all’ordinario fabbisogno dell’impresa.
Si segnala che, conformemente a tale orientamento, si era pronunciata anche parte della dottrina immediatamente dopo l’entrata in vigore della previsione in esame, la quale – muovendo dalla considerazione secondo cui la ratio della norma in esame consisterebbe nel favorire il superamento dello stato di difficoltà in cui versa l’impresa – affermava che tutti i pagamenti effettuati per le forniture di beni e servizi necessari per la continuazione della gestione dovessero ritenersi esonerati dalla revocatoria, a condizione che le forniture fossero ricollegabili ad un esercizio “normale” finalizzato alla prosecuzione dell’attività secondo gli standards usualmente praticati fino a quel momento o, in ogni caso, rispondenti alle ordinarie necessità di un’impresa operante in quella determinata fascia ed in quel determinato settore.
La Corte di Cassazione, tuttavia, ha però rigettato il ricorso, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi negli ultimi anni, secondo il quale l’espressione “termini d’uso” non si riferisce alle forniture che costituiscono oggetto del pagamento, ma ai pagamenti stessi, i quali risultano quindi opponibili alla massa dei creditori, anche se eseguiti ed accettati difformemente dalle previsioni contrattuali, purché siano stati effettuati secondo tempi e modalità corrispondenti a quelli che hanno caratterizzato il rapporto tra le parti nel suo concreto svolgimento (cfr. Cass., Sez. I, 7/12/2016, n. 25162).
La Suprema Corte inoltre ha ritenuto non condivisibile la tesi della ricorrente sia circa l’ambiguità della formulazione dell’art. 67 c. 3 lett. a) L. Fall. sia circa la prevalenza del criterio teleologico rispetto a quello letterale nell’interpretazione della norma. Al riguardo, con riferimento a questo ultimo punto, la Corte ha ribadito l’orientamento già consolidato, secondo il quale il criterio teleologico può svolgere un ruolo paritetico e comprimario a quello letterale nella sola ipotesi in cui, nonostante l’impiego di ciascuno dei due criteri singolarmente considerati, la lettera della norma rimanga ambigua.