Il termine per riassumere il processo esecutivo sospeso per divisione endoesecutiva decorre dalla sentenza o dall’ordinanza che definisce l’intero procedimento divisionale
di Stefania Volonterio, Avvocato Scarica in PDFCassazione civile, Sez. III, sent. 12 maggio 2021, n. 12685, Pres. Di Stefano, Est. Rossetti
Processo esecutivo – Divisione endoesecutiva – Debitore esecutato litisconsorte necessario – Pretermissione – Nullità della sentenza – Rilievo anche d’ufficio in ogni stato e grado – Annullamento della sentenza con rinvio in primo grado
Processo esecutivo – Divisione endoesecutiva – Sospensione del processo esecutivo – Dies a quo per la riassunzione – Ordinanza che definisce la divisione ex art. 789 c.p.c. – Passaggio in giudicato della sentenza che, in caso di contestazioni, definisce la divisione
(Cod. Proc. Civ. artt. 102, 161, 295, 354, 601, 627, 785, 789)
[I] E’ di carattere necessario il litisconsorzio del debitore esecutato in tutte le cause connesse alla procedura esecutiva (massima redazionale).
[II] Il processo esecutivo che sia stato sospeso ai sensi dell’art. 601 c.p.c. per una divisione endoesecutiva va riassunto entro il termine di legge, decorrente della pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 789, comma terzo, c.p.c. in assenza di contestazioni, oppure dal passaggio in giudicato della sentenza che risolva le contestazioni (massima redazionale).
CASO
Iniziata un’esecuzione forzata per espropriazione di un immobile appartenente per metà alla debitrice esecutata e per metà al marito di questa, il giudice dell’esecuzione sospendeva il procedimento esecutivo per dare corso alla divisione del bene pignorato.
Accertata la non comoda divisibilità dell’immobile staggito, il tribunale dichiarava ex art. 785 c.p.c. lo scioglimento della comunione tra la debitrice e il coniuge e rimetteva la causa sul ruolo per procedere alla vendita del bene.
Il marito della debitrice impugnava la sentenza di scioglimento della comunione, ma sia l’appello sia il ricorso per cassazione venivano respinti.
Nelle more del giudizio di cassazione lo stesso coniuge della debitrice faceva istanza al giudice dell’esecuzione, affinché dichiarasse estinta la procedura esecutiva (già sospesa), perché non riassunta nel termine di sei mesi (allora vigente) dal deposito della sentenza con la quale era stato rigettato l’appello avverso la sentenza pronunciata ex art. 785 c.p.c.
Il giudice dell’esecuzione rigettava l’istanza ed anche il successivo reclamo al collegio, proposto ai sensi dell’art. 630 c.p.c., veniva respinto dal tribunale con sentenza, impugnata in appello. La corte d’appello accoglieva invece il gravame, ritenendo che, una volta dichiarato dal tribunale lo scioglimento della comunione e rigettato l’appello avverso tale decisione, era dal deposito di questa sentenza di appello che era iniziato a decorrere il termine ex art. 627 c.p.c. per la riassunzione del processo esecutivo sospeso.
Il creditore procedente impugnava questa sentenza dinanzi con ricorso alla Corte di cassazione.
SOLUZIONE
La Corte di cassazione affronta la questione su quale sia il dies a quo per la riassunzione del processo esecutivo sospeso per dare corso alla divisione endoesecutiva del bene pignorato al solo al fine di prevenire ulteriori controversie tra le parti, avendo rilevato ex officio una decisiva nullità processuale della sentenza impugnata, che era stata pronunciata in un giudizio al quale non aveva partecipato la debitrice esecutata.
La Corte richiama il proprio consolidato orientamento, in base al quale il debitore esecutato è litisconsorte necessario in ogni causa connessa al processo esecutivo: sicché la sua mancata necessaria partecipazione dà luogo a un vizio rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo e “determina la cassazione con rinvio, ai sensi degli articoli 383, terzo comma, e 354 c.p.c. al giudice di primo grado, per provvedere all’integrazione del contraddittorio”.
È proprio in ragione di tale rinvio in primo grado al tribunale, e quindi alla prospettiva di una celebrazione ex novo di un procedimento chiamato ad affrontare la già dibattuta questione della sopravvenuta estinzione del processo esecutivo, che la Suprema Corte si dà comunque carico di “rilevare quale debba essere la corretta interpretazione delle norme che disciplinano i giudizi di divisione di beni assoggettati ad esecuzione forzata”.
Gli Ermellini rilevano, innanzitutto, che la sospensione del processo esecutivo per dare corso alla divisione ex art. 601 c.p.c. non è fornita, a differenza di quanto accade per la sospensione concordata tra le parti ex art. 624 bis c.p.c. e quella c.d. “cautelare” ex art. 624 c.p.c., di una specifica disciplina delle modalità di riassunzione del processo così sospeso.
La premessa non è, per la verità, esatta: infatti, l’art. 601, comma 1, c.p.c. testualmente prevede che l’esecuzione resti sospesa, “finché sulla divisione stessa non sia intervenuto un accordo fra le parti o pronunciata una sentenza avente i requisiti di cui all’art. 627” c.p.c., ai sensi del quale il processo esecutivo sospeso deve essere riassunto “in ogni caso, non più tardi di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza di appello” [v. TEDOLDI, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 273 s.].
La Corte richiama invece, in via analogica e senza vera necessità, i principi che regolano l’istituto della riassunzione, definito “istituto generale del processo”, e comunque rileva che quella di cui all’art. 601 c.p.c. “costituisce una ipotesi speciale di sospensione per pregiudizialità necessaria, prevista in via generale dall’articolo 295 c.p.c.”, con la conseguenza che “il processo sospeso a causa di una divisione endoesecutiva andrà riassunto secondo le previsioni di cui all’articolo 297 c.p.c., e dunque entro tre mesi (oppure sei mesi, secondo la disciplina applicabile ratione temporis) ‘dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile di cui all’articolo 295’ c.p.c.”.
Come detto, non occorre riferirsi alla disciplina della sospensione per pregiudizialità (in senso tecnico) di cui agli artt. 295 ss. c.p.c., essendovi nell’art. 601, comma 1, c.p.c. un espresso richiamo all’art. 627 c.p.c., sulla riassunzione del processo esecutivo, che viene anticipata alla pronuncia resa in grado di appello, anziché attendere la formazione del giudicato e che anzi, secondo un opinabile orientamento della stessa cassazione potrebbe avvenire anche dopo la sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva ex lege, a norma dell’art. 282 c.p.c. (cfr. TEDOLDI, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 423 ss.).
La Suprema Corte procede quindi a individuare quale debba essere considerata la “sentenza che definisce la controversia” in un giudizio di divisione endoesecutiva: essa, chiarisce la Corte, è rappresentata o dall’ordinanza non impugnabile ex art. 789, comma 3, c.p.c., oppure dalla sentenza passata in giudicato che ha risolto eventuali contestazioni sorte tra le parti ai sensi del medesimo articolo. Tale non può invece essere considerata la pronuncia che, ex art. 785 c.p.c., scioglie la comunione e che, “pur non potendo essere ridiscussa nella fase esecutiva, non ha l’efficacia di giudicato, la quale spetta solo all’ordinanza non impugnabile ex art. 789, comma 3, c.p.c.”.
QUESTIONI
La questione sottoposta alla Suprema Corte attiene al dies a quo per la riassunzione del procedimento esecutivo sospeso per la divisione endoesecutiva del bene pignorato.
Come noto, l’art. 601 c.p.c. disciplina un’appendice di cognizione del processo esecutivo, che ne determina la sospensione necessaria e automatica e che non lascia al giudice alcun potere discrezionale (tanto che la sospensione opera indipendentemente da un formale provvedimento in tal senso del giudice dell’esecuzione).
Il procedimento di divisione si svolge poi, a meno che i condividenti non si accordino bonariamente, in due fasi: la prima, come dice la Corte, “dichiarativa, avente ad oggetto l’accertamento della comunione e del relativo diritto potestativo a chiederne lo scioglimento”; la seconda, sempre usando le parole della Corte, “esecutiva, volta a trasformare in porzioni fisicamente individuate le quote ideali di comproprietà sul bene comune”.
Si apre, infatti, un procedimento regolato dagli artt. 784 e ss. c.p.c. dal quale scaturirà, ai sensi dell’art. 785 c.p.c., una prima pronuncia dichiarativo-costitutiva di scioglimento della comunione (un’ordinanza, se non ci sono contestazioni, o una sentenza se sorgono contestazioni che devono essere risolte), pronuncia alla quale seguirà, ove sia necessario dare corso ad operazioni di materiale divisione del bene (ad esempio, quando il bene, non essendo comodamente divisibile, debba essere venduto per ripartirne il ricavato), una seconda fase che, a sua volta, si concluderà con il provvedimento di cui all’art, 789 c.p.c. (anche in questo caso, un’ordinanza, se non ci sono contestazioni, o una sentenza, se sorgono contestazioni sorgono).
L’art. 601 c.p.c. stabilisce che la sospensione necessaria del processo esecutivo perdura “finché sulla divisione stessa non sia intervenuto un accordo tra le parti o pronunciata una sentenza avente i requisiti di cui all’art. 627” c.p.c., articolo quest’ultimo, che, collocato nell’ambito delle norme sulla sospensione del processo esecutivo, prevede che debba essere riassunto “… in ogni caso, non più tardi di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetta l’opposizione”.
La questione sottoposta alla Suprema Corte attiene proprio all’individuazione di quale sia “la sentenza” che fa decorrere il termine per riassumere il processo esecutivo sospeso in un caso in cui quello di divisione si svolga nelle due fasi sopra descritte: se quella pronunciata ex art. 785 c.p.c. (e, quindi, quella che dichiara lo scioglimento della comunione) o quella di cui all’art. 789 c.p.c., che conclude la fase che ha trasformato le porzioni ideali di proprietà sul bene in porzioni fisiche o in denaro.
E la Cassazione conferma il consolidato orientamento in base al quale, in un procedimento divisionale bifasico, la pronuncia ex art. 785 c.p.c., sia essa ordinanza o sentenza, assume un carattere di “non definitività”, sicché solo la successiva pronuncia ex art. 789 c.p.c. (sia essa in forma di ordinanza o sentenza) sarà idonea a far decorrere il termine per riassumere il processo esecutivo nel frattempo sospeso.
Il principio, del resto, risponde a una logica concreta: se la divisione è stata pronunciata ex art. 785 c.p.c. ma il bene pignorato è ancora fisicamente riunito, non sarebbe possibile ridare corso a una procedura esecutiva che dovrebbe avere esclusivamente ad oggetto la quota o la porzione di “beni” del solo debitore pignorato (il denaro attribuito al debitore in luogo della sua quota del bene o una porzione fisicamente separata e autonoma del bene).
Diversamente opinando, come ha fatto la corte d’appello nel caso in oggetto, si attribuirebbe al processo esecutivo ciò che non gli compete, e cioè l’attività esecutivo-divisoria che il legislatore ha invece scelto di affidare ad un diverso procedimento, seppur funzionalmente collegato: quello di divisione endoesecutiva, appunto.
Da qui, il principio di diritto enunciato dalla Corte nella sentenza in esame, in base al quale il dies a quo per la riassunzione del processo esecutivo è quello della pronuncia dell’ordinanza (o della sentenza) che conclude integralmente il processo di divisione, e quindi il provvedimento ex art. 789 c.p.c. e non quello di cui all’art. 785 c.p.c., che si limiti a dichiarare lo scioglimento della comunione, senza intervenire materialmente sulla res communis.