27 Aprile 2021

Sui rapporti tra il rigetto dell’istanza di disposizione della consulenza tecnica d’ufficio e l’applicazione dell’art. 2697 c.c.

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

Cass., sez. II., 19 febbraio 2021, n. 4518 Pres. Di Virgilio, Rel. Tedesco

Procedimento civile – Consulenza tecnica d’ufficio – Onere della prova – Giudice –Ammissibilità – (C.p.c. artt. 61, 62, 194, 195; C.c. art. 2697)

L’ammissione della consulenza tecnica costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito; ciò non toglie, però, che il giudice non possa, da un lato, negare ingresso all’istanza di consulenza tecnica e, dall’altro, ritenere nel contempo indimostrati i fatti che, per effetto della consulenza stessa, si sarebbero potuti invece, provare.

CASO

La decisione in commento trae origine dal contenzioso tra l’attrice, istituita erede con un primo testamento olografo del 15 luglio 1986 e la convenuta, istituita con testamento pubblico successivo avente ad oggetto, tra le altre dichiarazioni, la revoca della precedente scrittura.

In primo grado è impugnato il testamento posteriore, sulla base dell’affermata incapacità di intendere e di volere della testatrice.

Il tribunale rigetta la domanda argomentando, in motivazione, in ordine agli esiti dell’istruttoria, dalla quale, a fronte delle dichiarazioni di segno opposto rese dai testimoni indicati dall’attrice, era emersa la piena capacità della de cuius come confermato, tra gli altri riscontri, dalla testimonianza del notaio che aveva ricevuto il testamento pubblico e del medico di fiducia della testatrice stessa.

La sentenza è confermata in appello.

Avverso quest’ultima decisione è proposto ricorso per cassazione, al quale resistono gli eredi della convenuta nei gradi di merito

SOLUZIONE

La Cassazione accoglie il terzo motivo, con cui la ricorrente ha denunciato la “violazione e falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c. e art. 2697 c.c.” e l’“omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti”, rappresentato dall’aver “tempestivamente”, e senza successo, “richiesto la nomina di un consulente tecnico medico legale, reiterando la richiesta nel corso del giudizio di primo grado”, con scelta resa ancor più censurabile alla luce dell’iter logico- giuridico adottato nella sentenza di primo grado, e confermato in appello, che ha motivato il rigetto della pretesa sulla base del fallimento dell’attrice all’onere di dimostrare l’incapacità di intendere e di volere.

La ricorrente lamenta cioè che avrebbe potuto assolvere tale onere, ma che ciò sia stato impedito dalla scelta, da parte dei giudici del merito, di non dare ingresso alla consulenza tecnica d’ufficio.

La Cassazione aderisce a tale ricostruzione, osservando in motivazione che “seppure la corte d’appello abbia riconosciuto la ‘prevalenza’ delle dichiarazioni testimoniali che deponevano nel senso della capacità cognitiva della testatrice, la decisione nel suo complesso non è fondata sul positivo riscontro di uno stato di capacità della stessa testatrice, tale da rendere superflua la consulenza tecnica”, quanto invece sulla “insufficienza degli elementi acquisiti in giudizio ai fini della prova della incapacità”.

E in tale contesto, conclude la Corte, non opera la rigida regola dell’art. 2697 c.c., per cui nel caso di specie dovrebbe dichiararsi il fallimento dell’onere probatorio dell’attrice e dunque il rigetto della domanda, ma “si deve” al contrario “riconoscere che la consulenza tecnica, in materia di incapacità del testatore, è in linea di principio strumento efficiente d’indagine idoneo a permettere all’attore di assolvere al proprio onere. Sotto questo profilo, pertanto, la corte d’appello è realmente incorsa nella violazione della norma sull’onere probatorio, oggetto di denuncia con il motivo in esame, avendo ritenuto “indimostrati i fatti che, per effetto della consulenza stessa, si sarebbero potuti, invece, provare”.

QUESTIONI

La sintetica rievocazione del fatto processuale contenuta nella motivazione della decisione in epigrafe non permette di comprendere una circostanza dirimente ai fini della valutazione della fondatezza della censura, e dunque della condivisibilità o meno del principio di diritto affermato dalla Cassazione. Non è chiaro in altre parole se la doglianza abbia avuto ad oggetto l’impossibilità di ottenere dal C.T.U, una valutazione tecnica di fatti già tempestivamente allegati e dimostrati; ovvero se il ricorrente abbia invece lamentato che la scelta del tribunale, poi condivisa dalla corte d’appello, le abbia impedito di far entrare, attraverso lo schermo della consulenza, fatti non allegati, su cui il perito, una volta acquisito tali fatti, sarebbe stato chiamato ad esprimere la propria valutazione tecnica (fattispecie, quest’ultima, nella quale l’istanza di C.T.U., sia pure c.d. percipiente, apparirebbe meramente esplorativa e dunque nessun errore, neppure sul piano astratto, avrebbero commesso le corti di merito nel decidere la causa senza la previa disposizione della consulenza).

La Corte esamina infatti direttamente gli effetti giuridici della fattispecie, ricordando che

  • l’ammissione della consulenza tecnica costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3936; Cass., 1° ottobre 2019, n. 24487, che si diffonde sul potere “ampiamente discrezionale” del giudice in materia di C.T.U. e giunge ad affermare che sul punto “non è esercitabile alcun sindacato in sede di legittimità”, il ché, come si dirà infra, deve comunque intendersi limitato all’ipotesi in cui non appaia meramente apparente);
  • ex art. 591 c.c., comma 1, la capacità di testare è la regola e si presume, mentre l’incapacità è l’eccezione, e dunque la prova dell’incapacità del testatore nel momento in cui fece testamento deve essere fornita con ogni mezzo in modo rigoroso e specifico dalla parte che l’abbia dedotta (Cass., 10 ottobre 2018, n. 25053);
  • la stessa dimostrazione può giungere da “qualunque mezzo consentito dal nostro ordinamento giuridico” (Cass.22 ottobre 2019, n. 26873);

e precisando infine, nel passo della motivazione in cui si concentra il maggiore interesse del provvedimento, che il giudice non può “da un lato, negare ingresso all’istanza di consulenza tecnica e, dall’altro, ritenere nel contempo indimostrati i fatti che, per effetto della consulenza stessa, si sarebbero potuti invece, provare, specie quando oggetto dell’accertamento risultino elementi rispetto ai quali la consulenza si presenta come lo strumento più efficiente d’indagine e la parte si trovi, se non nell’impossibilità, quanto meno nella pratica difficoltà di offrire adeguati parametri di valutazione”.

Il principio espresso dalla Corte conferma la linea giurisprudenziale che tollera, e in certi casi persino estende la “finestra” che spesso la C.T.U., nella prassi, lascia indebitamente aperta ad un recupero, per le parti, della possibilità di assolvere ai propri oneri probatori, e ciò malgrado le affermazioni, affidate a massime tralatizie, per cui il mezzo, teoricamente, non sarebbe disponibile al fine di esonerare la parte dall’onere di fornire la prova di quanto assume ed è, quindi, legittimamente negato qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni od offerte di prova, ovvero di compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati” (Cass. 9 maggio 2016, n. 9318).

La discutibile dinamica descritta dalla Cassazione nella sentenza in esame presuppone al contrario che il giudice non possa rigettare l’istanza di C.T.U. formulata dalle parti, e in generale nel loro ipotetico silenzio non possa concludere per la mancata dimostrazione di un fatto costitutivo, laddove tale fallimento sia anche solo in parte attribuibile all’omessa disposizione della consulenza tecnica.

L’affermazione non è in realtà inedita.

Nello stesso senso si era espressa la Corte nella decisione 8 gennaio 2003, n. 87: in quell’occasione la Cassazione aveva escluso la logicità della motivazione con cui il giudice del merito aveva rigettato l’istanza, “omettendo di confutare le ragioni addotte dalla parte a sostegno della medesima”, e aveva ritenuto “nel contempo indimostrati i fatti che, per effetto della consulenza stessa, si sarebbero potuti invece, provare”; il ché secondo la citata sentenza risulterebbe foriero di incongruenze “specie quando oggetto dell’accertamento risultino elementi rispetto ai quali la consulenza si presenta come lo strumento più efficiente d’indagine e la parte si trovi, se non nell’impossibilità, quanto meno nella pratica difficoltà di offrire adeguati parametri di valutazione”.

Proprio quest’ultimo chiarimento può orientare il giudice di merito nel difficile coordinamento tra l’apertura alla prova “tramite” C.T.U. e l’affermazione, posta a premessa del ragionamento anche dalla sentenza in commento, per cui la disposizione della C.T.U, rientra nel potere discrezionale dell’organo giudicante.

Tale potere può infatti dirsi logicamente esercitato, e dunque può ritenersi sottratto ad un sindacato da parte della Corte di cassazione (nei ristretti confini in cui, a partire dalle note Sezioni Unite n. 8053/2014, un sindacato della Corte sulla qualità della motivazione è ancora ipotizzabile) soltanto laddove la parte, nell’istanza di C.T.U., abbia compiutamente illustrato le ragioni tecniche per cui versa “nell’impossibilità [o] quanto meno nella pratica difficoltà” di assolvere, con i propri mezzi, all’onere della prova su fatti la cui conoscenza può essere acquisita solo da chi possieda una determinata preparazione tecnica”, e in ogni caso con due ulteriori limiti opportunamente posti dalla giurisprudenza: l’esclusione della possibilità di provare tramite la C.T.U. di fatti, sia pure di natura tecnica, dimostrabili anche per via testimoniale (v. in tal senso la non recente, ma chiara delimitazione operata da Cass., 22 gennaio 1985, n. 250, per cui “la consulenza tecnica può costituire fonte oggettiva di prova solo quando si risolva in valutazioni tecniche e in accertamenti di situazioni di fatto tali da essere rilevabili unicamente col ricorso a determinate cognizioni tecniche, senza che il consulente possa essere chiamato ad accertare fatti che possono formare normale oggetto di prova testimoniale”); la nullità, assoluta e dunque rilevabile d’ufficio indipendentemente dall’eventuale acquiescenza delle parti, della consulenza viziata dallo “svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al thema decidendum della controversia o l’acquisizione ad opera dell’ausiliare di elementi di prova”, nella specie documentali, senza la specifica autorizzazione del giudice (Cass., 6 dicembre 2019, n. 31886).

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