19 Gennaio 2021

Il rilievo del difetto di giurisdizione nel processo esecutivo

di Cecilia Vantaggiato Scarica in PDF

Cass., Sez. III, 03-09-2019, n. 21995, Pres. Vivaldi, Est. De Stefano, Deutsche Bahn AG c. Regione Stereá Ellada

La sentenza della Corte internazionale di Giustizia nell’affare dell’immunità giurisdizionale dello Stato, non vincola direttamente né i soggetti né gli organi dell’ordinamento interno, essendo gli uni e gli altri assoggettati soltanto alle norme di diritto interno.

L’immunità della giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii costituisce una prerogativa (e non un diritto) riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali, la cui operatività od applicabilità nell’ordinamento italiano è preclusa, a seguito della sentenza della corte cost. n. 238 del 2014, in caso di crimini commessi in violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali; pertanto, i giudici italiani, sia quelli di cui al giudizio di cognizione, sia quelli competenti in materia di esecuzione, hanno il dovere, di negare l’immunità nell’ambito tanto del giudizio di cognizione o di delibazione della sentenza straniera, quanto dell’esecuzione forzata fondata su quest’ultima.

Una norma interna di recepimento di una sentenza della corte internazionale di giustizia, non può avere efficacia diretta sul procedimento esecutivo azionato in base al titolo dichiarato esecutivo in Italia in forza di un provvedimento giurisdizionale non attinto da censura; unico fondamento del processo esecutivo è infatti il titolo esecutivo, ed ogni questione relativa al titolo di formazione giudiziale è riservata al giudice della cognizione in ragione della separatezza tra giudizio di cognizione e processo esecutivo.

Nessuna procedura esecutiva può essere dichiarata improcedibile per un, quand’anche sopravvenuto, difetto di giurisdizione del giudice che ha emesso il titolo esecutivo giudiziale su cui essa si fonda, in costanza di validità di quest’ultimo, neppure nel contesto dell’esecuzione forzata di una sentenza di condanna di uno stato estero al risarcimento di danni recati da crimini di guerra, nonostante una sentenza della corte internazionale di giustizia che abbia accertato la violazione della regola consuetudinaria sull’immunità degli stati dalla giurisdizione civile.

CASO

Nella cittadina di Distomo, un Paesino ai piedi del Parnaso nella Regione greca della Beozia, si consumò alle soglie dell’estate del 1944 una delle ennesime tragedie perpetrata dalla Wehrmacht: l’eccidio di più di 200 civili.

Sul finire degli anni Novanta i familiari delle vittime intentarono avanti ai tribunali ellenici cause per l’accertamento della responsabilità dello Stato tedesco con conseguente richiesta di risarcimenti. Il giudice greco di primo grado condannò la Germania al pagamento di 56 milioni di marchi. Pochi anni dopo, l’Areopago, la Corte Suprema greca, confermò la sentenza. L’amministrazione regionale ellenica decise allora di chiedere alla Corte d’appello di Firenze il riconoscimento di detta sentenza: la Corte fiorentina respinse l’opposizione proposta dalla Germania avverso il provvedimento con il quale era stato concesso l’exequatur; la pronuncia venne confermata dalla Cassazione nel 2011, aprendo la via al processo esecutivo.

Fu promosso un pignoramento presso terzi a carico dei debitori Deutsche Bahn e Repubblica federale di Germania e dei terzi debitores debitorum Trenitalia S.p.A. e Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., dichiarato dal giudice dell’esecuzione improcedibile in forza del sopravvenuto obbligo dello Stato italiano di conformarsi alla sentenza 03/02/2012 della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, da cui discendeva l’illegittimità del riconoscimento delle sentenze elleniche azionate in executivis. Avverso l’ordinanza di improcedibilità l’amministrazione greca propose opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., accolta dal giudice dell’opposizione anche a seguito della declaratoria di incostituzionalità delle norme che obbligavano l’Italia a conformarsi alla pronuncia della Corte Internazionale dell’Aja (Corte cost. 238/2014): la sentenza veniva impugnata da Deutsche Bahn con ricorso per cassazione.

SOLUZIONE

La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, essendo esperibile l’appello. Nondimeno, stante la rilevanza della questione e nell’interesse della legge, ha esaminato le inerenti questioni e ha stabilito i principi enunciati nelle massime in epigrafe riportate. 

QUESTIONI

Nel processo esecutivo l’esistenza di un titolo esecutivo costituisce la condizione necessaria dell’esercizio dell’azione esecutiva: la sua esistenza nonché la sua permanente validità dev’essere sempre verificata dal giudice in tutto il corso del procedimento esecutivo (Cass. 07/02/2000, n. 1337). Tale verifica, anche in sede di opposizione all’esecuzione (con cui si contesta il diritto di procedere alle vie forzate perché chi le minaccia o le inizia non è assistito da titolo esecutivo), ha ad oggetto l’accertamento dell’idoneità del titolo stesso a legittimare l’azione esecutiva e si pone come preliminare dal punto di vista logico nella decisione sui motivi di opposizione, anche se questi non investano direttamente la questione (cfr. Cass. 11 dicembre 2018, n. 31955); il giudice dell’esecuzione o dell’opposizione alla stessa può accertare sia l’inesistenza originaria del titolo sia la sua caducazione sopravvenuta, dal momento che questa situazione produce l’illegittimità dell’esecuzione forzata con effetto ex tunc e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, trattandosi di presupposto dell’azione esecutiva (così Cass. 19/05/2011, n. 11021; Cass. 29/11/2004, n. 22430).

Corollario di quanto detto è che, una volta formatosi il titolo, nel processo esecutivo successivamente instaurato non potrà contestarsi il difetto di giurisdizione del giudice che ha emesso il titolo esecutivo giudiziale su cui esso si fonda. Le Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 26/10/2000, n. 1139) hanno statuito l’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. sollevato nel corso del procedimento esecutivo, dovendo “l’ambito di applicazione di detto rimedio processuale ritenersi circoscritto entro i confini del processo di cognizione”. Una parziale apertura vi era stata successivamente (Cass., Sez. Un., 17/07/2008, n. 19601) nell’ambito del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo che, nella disciplina anteriore al 2013, si configurava come un vero e proprio giudizio di cognizione sull’esistenza del credito del debitore esecutato nei confronti del terzo pignorato, concludendosi con una sentenza di accertamento dell’esistenza del credito, soggetta ai normali rimedi impugnatori.

Nell’esecuzione forzata, anche in quella presso terzi dopo le riforme intervenute a partire dal 2013, il giudice dell’esecuzione, se ha il potere di verificare i presupposti processuali della tutela esecutiva, non ha tuttavia quello di decidere tali questioni con sentenza. Un eventuale difetto di giurisdizione nel processo esecutivo può bensì venire in rilievo; tuttavia, il regime giuridico dei provvedimenti esecutivi non è, per il fatto di presupporre la soluzione esplicita o implicita di una questione di giurisdizione, quello di una sentenza; ciò comporta che la stessa collocazione del rimedio processuale del regolamento deve necessariamente essere relegata nell’alveo del solo processo di cognizione, nel quale è legittimo il riferimento a una decisione di merito di primo grado avente natura di sentenza e ad organi quali il giudice istruttore e il collegio, cui spetta ex art. 367 c.p.c. il potere di decidere sulla sospensione del procedimento, laddove nel processo esecutivo manca sia uno sviluppo per gradi, sia la pronuncia di decisioni aventi natura di sentenza, sia un organo giurisdizionale designato ex lege come giudice istruttore, parlando la legge, viceversa, di giudice dell’esecuzione (cfr. Cass. Sez. U. ord. 19/05/2016, n. 10320).

Deriva da quanto detto che né la sentenza della Corte Internazionale dell’Aja né la norma nazionale di recepimento avrebbero mai potuto incidere sul processo esecutivo, determinandone l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di giurisdizione del giudice dinanzi al quale ebbe a formarsi il titolo esecutivo giudiziale su cui essa la procedura esecutiva si fonda: e ciò in ragione del fatto che il venir meno della giurisdizione del giudice del titolo esecutivo giudiziale impone un giudizio di cognizione caducatorio del titolo stesso, non una semplice opposizione in sede esecutiva.

Correttamente la Corte ha quindi ritenuto che l’unico presupposto, necessario e sufficiente, del processo esecutivo sia l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, escludendosi che possano venire in rilievo profili cognitori (fra molte Cass. Sez. U. 07/01/2016, n. 65): talché la giurisdizione del giudice dell’esecuzione non viene in rilievo.

In conclusione, se la sentenza in commento ha il pregio di offrire una ricostruzione della questione della giurisdizione in sede esecutiva, resta tuttavia sullo sfondo il problema afferente all’esecuzione forzata per titoli esecutivi che abbiano condannato uno Stato (nel caso di specie la Repubblica Federale Tedesca) a risarcire i danni cagionati da crimini di guerra. Una questione destinata ad avere sempre maggiore rilievo, alla stregua delle ormai assai numerose sentenze di condanna della Repubblica Federale Tedesca a versare risarcimenti pecuniari per gli ex militari internati in campi di lavoro tedeschi dopo l’8 settembre del 1943, sui quali v., si vis, A. TEDOLDI, C. VANTAGGIATO, I risarcimenti agli ex militari internati: lo stato italiano fa le veci della Germania (Nota a T. Bolzano, 11 settembre 2018, F. R. c. Gov. Germania federale e T. Brescia, 3 agosto 2019, C. c. Gov. Germania federale).

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