22 Dicembre 2020

L’efficacia e la vincolatività del patto parasociale stipulato dal socio di maggioranza di una società

di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDF

 Tribunale di Napoli, Sezione Specializzata in materia di Impresa, sentenza n. 6438 del 8 ottobre 2020.

Parole chiave: patto parasociale – società per azioni – amministratore di fatto

Massima: il patto parasociale stipulato dal socio di maggioranza di una società non comporta alcun coinvolgimento della società medesima e non ha efficacia nei confronti di quest’ultima, non potendosi ritenere che l’azionista di maggioranza possa impegnare la società in sostituzione del suo organo gestorio, a meno che non si dimostri che egli ha agito come un amministratore di fatto, essendo a tal fine necessario che le attività gestorie concretamente svolte presentino carattere sistematico e non si esauriscano soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale.

Disposizioni applicate: articoli 1411 c.c., 2341 bis c.c., 2369 c. 4° c.c.

Con il giudizio in esame alcuni soci sottoscrittori di un patto parasociale hanno chiesto la risoluzione di quest’ultimo per inadempimento degli altri aderenti, convenendo in giudizio il socio di maggioranza e la società di cui al suddetto patto.

Tali convenuti hanno quindi eccepito la carenza di legittimazione passiva della società, sostenendo che il patto non era stato concluso dal suo organo gestorio avente il potere di vincolare la società, ma unicamente dal socio di maggioranza, che tuttavia non aveva alcun ruolo di amministratore.

Gli attori hanno invece sostenuto che il patto in questione sarebbe stato comunque vincolante anche per la società, mediante una sorta di “imputabilità per comportamento concludente”, avendo il socio di maggioranza sottoscrittore del patto ingenerato un affidamento circa la riferibilità dell’impegno anche alla società.

Partendo da tale vicenda, il Tribunale di Napoli ha compiuto un interessante excursus in merito alla natura e ai principi sottesi all’istituto del patto parasociale – regolato normativamente dagli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c. e soltanto con il TUF per le società quotate – ricordando che si tratta di un contratto atipico avente carattere “complementare” e “collaterale” al contratto di società, e diretto alla stabilizzazione degli assetti proprietari ovvero della governance della società, quest’ultima intesa come “complesso delle attività svolte dagli organi societari”.

Il patto parasociale può essere stipulato in qualunque forma, sia tra i soci che tra i soci e i terzi estranei alla società, ha efficacia meramente obbligatoria, poiché vincola unicamente le parti contraenti, e ha l’obiettivo di neutralizzare, ovvero temperare il conflitto che spesso sorge tra l’interesse personale del singolo socio, ovvero di gruppi di soci, e quello della società.

Si tratta quindi di una convenzione atipica che regola i rapporti sociali – anche mediante la promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. o integrando una fattispecie di contratto a favore di terzo ex art. 1411 c.c. – ma lascia sempre i soci liberi di determinare la propria volontà o di agire all’interno della società in modo diverso rispetto alle previsioni del patto; in tal caso, l’eventuale condotta difforme rispetto agli impegni presi con il patto costituirebbe unicamente un inadempimento contrattuale, senza tuttavia comportare alcuna rilevanza nell’ambito dei rapporti societari.

Ciò premesso, i Giudici partenopei hanno accolto l’eccezione di carenza di legittimazione passiva della società convenuta, rilevando che il patto stipulato da un socio di maggioranza vincola quest’ultimo, ma non la società di cui fa parte poiché, diversamente opinando, l’azionista di maggioranza potrebbe sempre impegnare la società scavalcando l’organo gestorio deputato a farlo e compromettendo la funzione tipica dell’assemblea o il principio maggioritario quale modalità di formazione della volontà sociale.

Il Collegio ha infine rigettato le argomentazioni attoree, secondo cui il patto sarebbe stato in ogni caso riconducibile alla società per effetto di un comportamento concludente del socio di maggioranza, non essendo stata fornita in giudizio la prova del compimento di attività gestorie di carattere sistematico e non essendo sufficiente il compimento di atti eterogenei ed occasionali.

Al riguardo, è stata infatti richiamato quell’orientamento, ormai consolidato, di legittimità che nel delineare i confini della figura dell’amministratore di fatto ha specificato che occorre “un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo ad influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di sé l’operato complessivo della società” che non si traduca necessariamente nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, “risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto” (cfr. Cass. n. 21567 del 18.09.2017, che è stata richiamata nella sentenza in esame unitamente alle sentenze della Cassazione n. 6719 del 12 marzo 2008, n. 9795 del 14 settembre 1999, e n. 1925 del 6 marzo 1999, che evidenziano invece la necessità di un carattere sistematico e non di natura eterogenea ed occasionale dell’attività posta in essere dall’amministratore di fatto).