24 Novembre 2020

L’approdo della giurisprudenza in merito al recesso ad nutum nelle società di capitali aventi un termine di durata eccessivamente lungo

di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDF

Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, sentenza n. 4186 del 14 luglio 2020.

Parole chiave: recesso – recesso ad nutum – durata della società – società di capitali – exit del socio di minoranza.

Massima: la previsione dell’art. 2437 comma 3 c.c. in merito al diritto di recesso del socio è norma di stretta interpretazione applicabile solo alle società per azioni a tempo indeterminato e, pertanto, è escluso il diritto di recesso “ad nutum” del socio di una società per azioni nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società, anche qualora il termine sia estremamente lungo e lontano nel tempo.

Disposizioni applicate: articoli 2437 c.c., 2473 c.c., 2519 c.c., 2285 c.c.

Con il giudizio in esame gli attori soci di una Banca società cooperativa per azioni hanno convenuto in giudizio l’istituto di credito per chiedere l’accertamento e la dichiarazione della validità ed efficacia del recesso da loro esercitato, e la conseguente liquidazione delle loro partecipazioni sociali, invocando l’applicazione dell’art. 2437 comma 3 c.c. (espressamente richiamato dall’art. 2519 c.c. con riguardo alle società cooperative) che consente al socio di una S.p.A. avente durata indeterminata di esercitare il recesso ad nutum con un preavviso di 180 giorni.

Secondo la prospettazione attorea, poiché la banca convenuta aveva una durata statutaria prevista fino al 2080, tale durata era assimilabile a quella di una società a tempo indeterminato, in applicazione analogica del principio di cui all’art. 2285 c.c. adottato dalla giurisprudenza con riferimento alle società di persone, in base al quale si considera a tempo indeterminato anche la società la cui durata ecceda l’aspettativa di vita del socio.

La suddetta questione è stata affrontata in diverse occasioni, e con diverse interpretazioni, sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità; quest’ultima, solo di recente – con la pronuncia n. 4716/2020 citata anche nella sentenza in esame – ha proposto un mutamento del proprio precedente indirizzo circa l’equiparazione, sotto il profilo in questione, tra le società per azioni aventi un termine di durata particolarmente lungo, superiore all’aspettativa di vita dei soci, e la società per azioni costituite a tempo indeterminato.

Con la suddetta sentenza, la Suprema Corte ha infatti fornito un’interpretazione restrittiva dell’art. 2437, comma 3, c.c., secondo la quale la possibilità di recedere ad nutum per il solo caso di una società con durata a tempo indeterminato deve ritenersi assolutamente tassativa e non può estendersi analogicamente all’ipotesi di una società avente una durata particolarmente lunga.

Ciò in quanto è necessario effettuare una comparazione tra l’interesse del socio di S.p.A. a dismettere il proprio investimento e l’interesse del resto della compagine sociale e della società stessa di portare avanti il progetto imprenditoriale – facendo affidamento sulle risorse presenti e sulla certezza delle stesse – connesso all’interesse dei terzi creditori che, a propria volta, fanno affidamento sulla generica garanzia costituita dall’intero patrimonio sociale.

Richiamando tale assunto, ed il proprio precedente orientamento già espresso con la sentenza n. 5972 del 19 giugno 2019, il Tribunale di Milano ha quindi evidenziato la necessità di diversificare la disciplina delle società di capitali da quella delle società di persone, con riguardo in particolare alla rilevanza delle persone fisiche dei soci e alla rilevanza per i creditori sociali del capitale sociale, posto che (i) l’art. 2285 c.c. dettato per le società di persone ammette il recesso ad nutum quando la società sia contratta per l’intera vita del socio, ma ciò solo in quanto il contratto sociale, diversamente da quello delle società di capitali, è fondato sull’intuitus personae del socio; e (ii) nelle società di capitali deve essere preminente l’interesse dei creditori e dei terzi rispetto a quello del socio al disinvestimento, in quanto, mentre il socio ha scelto o accettato l’assetto organizzativo della società nel momento in cui è entrato nella compagine sociale, il creditore o il terzo restano invece esposti impotenti al rischio del depauperamento della garanzia generica, per effetto dell’esercizio imprevedibile della facoltà di recesso da parte del socio (diversamente dai creditori di una società di persone che possono fare affidamento, oltre che sul patrimonio societario, anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili).

Il Tribunale ha infine evidenziato che le suddette ragioni sono ancora più sostenibili con riguardo al recesso di una società che eserciti l’attività bancaria, come la società convenuta nel caso in esame, sottoposta all’osservanza di norme particolari a tutela del patrimonio cd. di vigilanza che, a garanzia di risparmiatori e terzi investitori, deve rispondere a particolari limiti di capienza e requisiti di qualità dell’attivo.

Per tutte le suddette ragioni, la domanda degli attori nei confronti della banca convenuta è dunque stata rigettata, con conseguente dichiarazione di invalidità ed inefficacia del recesso da loro esercitato (e compensazione delle spese in ragione del mutamento giurisprudenziale registrato in più occasioni sul tema).