20 Ottobre 2020

Giudizio di divisione e certificazione ipocatastale. Necessità od opportunità?

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione Civile, Sez. 6, ordinanza n. 10067del 28/05/2020

COMUNIONE DEI DIRITTI REALI – SCIOGLIMENTO – Divisione giudiziale – Produzione dei certificati relativi a iscrizioni e trascrizioni sull’immobile da dividere – Onere a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda – Esclusione – Vendita dell’immobile in comunione – Necessità dell’acquisizione di tali informazioni – Sussistenza – Modalità

Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita.

Disposizioni applicate

Articoli 713, 1113 e 2650 cod. civ.; 784, 786 e 788 cod. proc. civ.

[1] La sentenza in commento riporta il caso di Tizia, la quale adiva il Tribunale per far accertare che il fondo “Tuscolano”, sebbene formalmente compreso nell’eredità della propria madre Tiziona, fosse di sua esclusiva proprietà per averlo usucapito. I di lei fratelli e sorelle si costituivano in giudizio rivendicando la proprietà comune, a titolo ereditario, del predetto fondo e domandando la divisione del bene.

Il giudice di primo grado accertava l’usucapione e rigettava la domanda di divisione proposta in via riconvenzionale dai convenuti.

Questi ultimi adivano la Corte d’Appello la quale, con sentenza non definitiva, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di usucapione, accertava la proprietà comune del fondo e ne ordinava la divisione. Con separata ordinanza rimetteva, dunque, la causa sul ruolo al fine di sentire le parti personalmente sulle modalità della divisione, tenuto conto della indivisibilità dell’immobile in natura.

Con ulteriore ordinanza, veniva disposta una consulenza tecnica volta ad accertare il valore attuale del bene ai fini dell’assegnazione a Caia, che ne aveva fatto formale richiesta, e per accertare il valore dei frutti dovuti da Tizia agli altri compartecipi in dipendenza del possesso esclusivo del cespite comune.

Con la sentenza definitiva la corte di merito – dopo aver rilevato come la proprietà comune del bene fosse stata già accertata con la sentenza non definitiva che aveva ordinato la divisione del bene, per cui la questione, nuovamente sollevata da Tizia, non era suscettibile di ulteriore riesame – attribuiva il bene comune a Caia, dietro pagamento del conguaglio, e condannava l’attrice al pagamento pro quota dei frutti in ragione dell’utilizzo esclusivo del bene.

[2] All’esito del giudizio di merito, Tizia proponeva ricorso in Cassazione censurando la sentenza di merito, innanzitutto, nella parte in cui la corte aveva ordinato la divisione dell’immobile nonostante la mancata produzione del titolo di provenienza dell’immobile in capo alla defunta e la mancata produzione del certificato delle iscrizioni e trascrizioni dell’ultimo ventennio (ovvero la certificazione notarile sostitutiva).

A giudizio della ricorrente, tale documentazione risulterebbe necessaria ai fini della procedibilità della domanda di divisione giudiziale di immobili, essendo essenziale sotto una molteplicità di profili. In primo luogo, per verificare che “non vi siano cause ostative alla divisione, quali l’inesistenza del diritto di proprietà in capo alle parti per effetto di eventuali trasferimenti dell’immobile, ovvero l’esistenza di litisconsorti necessari non evocati in giudizio a norma dell’articolo 1113 cod. civ. e dell’articolo 784 c.p.c.“. E le relative verifiche dovrebbero essere fatte d’ufficio, per garantire non solo l’integrità del contraddittorio, ma anche al fine di verificare l’osservanza del principio di continuità delle trascrizioni, tenuto conto che la sentenza di divisione è soggetta a trascrizione ex articolo 2646 cod. civ.; tale verifica, nella specie, era tanto più essenziale “se si considera che la domanda non è stata trascritta e, di conseguenza, la trascrizione della sentenza, non potendo retroagire, non sarebbe efficace rispetto alle iscrizioni e trascrizioni eseguite nelle more del giudizio“.

[3] A giudizio della Suprema Corte, tale motivo di impugnazione è infondato.

Per il Giudice di legittimità, se è vero che, nella divisione giudiziale, i condividenti debbono fornire la prova della comproprietà; tuttavia non è loro carico, neanche in caso di contestazioni, quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento della proprietà, poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa. Viene, a tal proposito, richiamata la precedente giurisprudenza della Suprema Corte, la quale aveva avuto modo di statuire che “il principio secondo cui l’atto di divisione non è idoneo a fornire la prova della proprietà nei confronti dei terzi, non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, accertando i diritti delle parti nel presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione.[1]

[4] La ricorrente portava avanti la tesi che la mancata produzione del certificato delle iscrizioni e trascrizioni dell’ultimo ventennio (ovvero la certificazione notarile sostitutiva), a prescindere della prova della comproprietà, impedisse la verifica del contraddittorio in rapporto all’eventuale esistenza di creditori iscritti, litisconsorti necessari nella divisione giudiziale ai sensi dell’articolo 1113 cod. civ. e dell’articolo 784 c.p.c..

Al riguardo la Suprema Corte, pur ammettendo l’esistenza di pronunciati di merito favorevoli alla prospettata tesi, ritiene che la produzione dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile da dividere, imposta dall’articolo 567 c.p.c. ai fini della vendita dell’immobile pignorato, non costituisca adempimento richiesto anche nella divisione giudiziale, tale da condizionare l’ammissibilità o la procedibilità della domanda.

Diverse sono le considerazione svolte.

I creditori iscritti e gli aventi causa da un partecipante, pur avendo diritto ad intervenire nella divisione, ai sensi dell’articolo 1113, comma 1, cod. civ., non sono parti in tale giudizio, al quale devono partecipare soltanto i titolari del rapporto di comunione, potendo i creditori iscritti e gli aventi causa intervenire in esso, al fine di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale. Essi non hanno alcuna facoltà di impedire o sospendere, interrompere il giudizio divisionale attivato dal loro debitore e dante causa.

Viene ammesso che “è indubbio che se risulta la esistenza di trascrizioni e iscrizioni prese contro i singoli compartecipi il giudice sia tenuto, ai sensi dell’articolo 784 c.p.c. e dell’articolo 1113 cod. civ., a ordinare la chiamata in giudizio dei creditori e degli aventi causa. Tuttavia, è ingiustificato far derivare dagli articoli 784 e 1113 cit. la implicita imposizione, a carico dei compartecipi, di un onere di documentare, sotto pena di improcedibilità della domanda di divisione giudiziale, la presenza o l’assenza di trascrizioni e iscrizioni sulla quota indivisa dei singoli. Un tale onere, infatti, non previsto da quelle norme, non si giustifica in relazione alle esigenze che stanno alla base dell’intervento dei creditori e degli aventi causa nella divisione.”

La chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa di uno dei compartecipi non è, pertanto, condizione di validità della divisione, ma un onere che i compartecipi debbono assolvere se ed in quanto si voglia che la relativa decisione faccia stato nei lori confronti. Conseguenza della mancata chiamata in giudizio di creditori e aventi causa non è l’invalidità della sentenza nei confronti dei comproprietari, ma solo le conseguenze stabilite nell’articolo 1113 cod. civ.[2]

Se, dunque, la produzione della predetta documentazione non ha riflessi sull’ammissibilità o procedibilità della domanda, la Corte sottolinea come essa possa risultare indispensabile quando la divisione debba avvenire mediante vendita. Infatti, per gli Ermellini “l’articolo 567 c.p.c. è richiamato dall’articolo 788 c.p.c. per il caso che la divisione richieda la vendita di immobili.”[3]

In tali ipotesi, “a tutela del terzo acquirente, si dovranno acquisire anche nella divisione giudiziale le informazioni richieste dall’articolo 567 c.p.c. per la espropriazione. Ma a tale esigenza deve sovraintendere d’ufficio il giudice della divisione, nel suo potere di direzione delle operazioni divisionali (articolo 786 c.p.c.), ordinando alle parti la produzione della documentazione occorrente o tramite il notaio delegato al compimento della vendita.”

[5] Le considerazioni svolte vengono condivise da parte della dottrina, ma non può sottacersi che, come ricordato nella sentenza epigrafata stessa, sono individuabili numerosi provvedimenti difformi nella giurisprudenza di merito, la quale ritiene necessaria la produzione delle certificazioni ipocatastali al fine, da un lato di consentire al giudice di accertare la sussistenza del diritto di proprietà in capo ai comunisti, dall’altro di individuare l’eventuale presenza di alcuno dei soggetti considerati da tale giurisprudenza quali litisconsorti necessari.[4]

E proprio la sussistenza di un così radicato orientamento dei giudici di primo e secondo grado deve spingere il professionista, che assista una parte nell’introduzione di un giudizio di divisione, a prestare la massima attenzione sul punto, sottolineando al proprio cliente se non la necessità giuridica, quantomeno la viva opportunità di produrre in giudizio una certificazione dalla cui mancanza potrebbe dipendere la sorte del giudizio stesso.

[1] In tal senso: Cass.Civ., Sez. 2, sentenza n. 4828 del 18/05/1994; Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 27034 del 18/12/2006; Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 4730 del 10/03/2015 “L’atto di divisione, in ragione della sua natura meramente dichiarativa, non è idoneo a fornire la prova della titolarità del bene nei confronti dei terzi, mentre assume rilevanza probatoria nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, giacché la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula necessariamente il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione”; nonché Cass. Civ., Sez. 2, sentenza n. 15504 del 13/06/2018: “Il compartecipe, il quale si ritenga proprietario per usucapione di un bene in comunione, non può iniziare il giudizio di divisione e, qualora sia stato in questo convenuto da uno o più degli altri comproprietari, deve fare valere l’avvenuta usucapione in tale giudizio poiché la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, presuppone il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione; ove egli, al contrario, non contesti il diritto alla divisione di quel determinato cespite o resti contumace, non può opporre successivamente l’usucapione al condividente cui detto bene sia stato assegnato o al terzo aggiudicatario dello stesso in seguito a vendita all’incanto, salvo che non possa impugnare la divisione contestandone il presupposto e deducendo un titolo di possesso diverso da ogni altro che possa derivargli dalla disciolta comunione.”

[2] Ossia, il potere di impugnativa della divisione, se la violazione è incorsa in danno dei creditori e aventi causa che abbiano fatto opposizione; nonché il potere di coloro che abbiano trascritto il negozio di acquisto o iscritto l’ipoteca di disconoscere l’efficacia della divisione, la quale sarà nei loro confronti tamquam non esset.

[3] L’ipotesi più comune è data dall’indivisibilità (articolo 720 cod. civ.).

[4] Tra le molte pronunce, Corte di Appello di Roma n. 2480 del 01/06/2011, a giudizio della quale “nell’adire il giudice per la divisione di comunione ereditaria, è indispensabile l’allegazione alla domanda dei certificati storici catastali e della documentazione concernente le iscrizioni e le trascrizioni relativamente ai beni nell’ultimo ventennio, quanto meno della relazione notarile in sostituzione, attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. Ciò per consentire al giudice di verificare la presenza di condizioni ostative dell’azione divisoria, quali quelle afferenti alla sussistenza del diritto dominicale in capo alle parti del giudizio, nonché l’esistenza eventuale di altri litisconsorti necessari (creditori o aventi causa da un partecipante alla comunione) a norma degli artt. 1113 cod. civ. e 784 c.p.c.”.

Si veda, altresì Trib. di Torre Annunziata del 28/09/2015: “sarebbe (…) stato necessario produrre, ai fini della prova della proprietà del diritto, oltre al titolo di provenienza in favore del sig. Tizio, dell’immobile indicato in citazione, altresì regolare certificazione notarile (ovvero rilasciata direttamente dal Conservatore dei Registri Immobiliari) contenente l’indicazione delle trascrizioni, a favore e contro, sui beni oggetto della chiesta divisione, a far tempo dalla data dell’acquisto di tale cespite da parte del de cuius fino a quella di apertura della successione, nonché di quelle contro i successori a far tempo dalla data di apertura della successione fino a quella di trascrizione della domanda, ovvero di instaurazione del giudizio di divisione, poiché, solamente attraverso tale documentazione, è possibile verificare se un determinato bene sia ancora di proprietà del de cuius e, dunque, delle parti al momento dell’instaurazione del giudizio di scioglimento di comunione ereditaria.

(…) in mancanza della documentazione sopra indicata, nessuna divisione può essere disposta, non avendo questo giudice alcuna contezza della sorte giuridica dei beni indicati non avendo né gli attori, né i convenuti prodotto i titoli di provenienza del bene in favore del de cuius. Ora, poiché la titolarità del bene si pone non già come requisito di legittimazione attiva, ma piuttosto come oggetto della controversia, le parti hanno l’onere di fornire una prova rigorosa della proprietà, non potendo tale ineludibile circostanza neppure essere surrogata dalla dimostrazione del titolo in via meramente presuntiva; e quanto detto preclude altresì al giudice di desumere l’esistenza della proprietà in capo ai condividenti dalla mancata contestazione delle parti sul punto.

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