Le limitazioni al potere rappresentativo degli amministratori possono essere opposte ai terzi unicamente dalla società e non dai soci
di Francesca Scanavino, Avvocato e Assistente didattico presso l’Università degli Studi di Bologna Scarica in PDFParole chiave: limiti dello statuto – potere di rappresentanza – rappresentanza dell’amministratore – opponibilità ai terzi – falsus procurator – invalidità e inefficacia del contratto –
Massima: Anche nelle società a responsabilità limitata è possibile attribuire il potere di rappresentanza soltanto ad alcuni amministratori, poiché la regola posta dall’art. 2475 bis c. 1 c.c. assume rilevanza unicamente nel silenzio dello statuto o dell’atto di nomina. Tuttavia, spetta esclusivamente alla società (e non ai soci) valutare la ricorrenza dei presupposti ex art. 2475 bis c. 2 c.c. ai fini dell’opposizione ai terzi delle limitazioni del potere amministrativo.
Disposizioni applicate: articoli 2475 bis c.c., 1388 c.c., 1389 c.c.
Nel caso in esame le parti attrici hanno agito in giudizio al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia – nonché l’inopponibilità nei loro confronti – di un contratto di subappalto stipulato dalla società consortile a responsabilità limitata, di cui erano socie, con una società terza.
In particolare, le parti attrici hanno dedotto che detto contratto è stato sottoscritto dal solo Presidente del consiglio di amministrazione, in violazione dell’atto costitutivo, che prevedeva obbligatoriamente la firma congiunta del Presidente e di almeno uno dei due Vicepresidenti del consiglio di amministrazione per la stipulazione di contratti di subappalto. A fonte di ciò, pertanto, il suddetto contratto di subappalto sarebbe improduttivo di effetti sulla scorta del consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale “ai sensi dell’art. 1388 c.c., il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante” (Cass., sez. un., 3 giugno 2015, n. 11377).
Il Tribunale di Roma, investito di tale questione, pur rigettando le domande attoree, ha avuto l’occasione di chiarire innanzitutto il fatto che i principi relativi al falsus procurator, ed in generale all’interpretazione degli artt. 1388 e 1389 c.c., non sono automaticamente trasponibili in tema di rappresentanza delle società di capitali (sul punto, anche Trib. Roma, 3 agosto 2018), essendo tale disciplina espressamente derogata dall’art. 2475 bis c.c., che sancisce il principio della rappresentanza generale degli amministratori al fine di garantire la tutela dei terzi e la certezza dei traffici giuridici.
Quanto al potere di rappresentanza in ambito societario, ed in particolare alla questione relativa alla differenza della “fonte” di detto potere nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata, il giudice romano ha affermato che anche nelle società a responsabilità limitata è possibile attribuire il potere di rappresentanza soltanto ad alcuni amministratori ovvero ricollegarla alla titolarità di alcune cariche, poiché la disciplina di cui all’art. 2475 bis c. 1 c.c. si applica solo laddove non vi sia diversa disposizione statutaria.
Tuttavia, il rilievo dei limiti al potere rappresentativo si esaurisce meramente sul piano dei rapporti interni alla società e, pertanto, il socio non è legittimato ad impugnare e ad opporre ai terzi eventuali vizi o l’inefficacia del contratto. Spetterà, quindi, esclusivamente alla società il potere di agire nei confronti dei terzi per opporre le limitazioni del potere rappresentativo (ferma comunque la prova che i terzi abbiano agito intenzionalmente a danno dalla società, richiesta ai sensi dell’art. 2475 bis c. 2 c.c.).
Inoltre, a fronte della valenza meramente interna dei limiti di rappresentanza degli amministratori societari, il Tribunale di Roma ha altresì affermato come la violazione di detti limiti non dia luogo ad un vizio di invalidità o all’inefficacia del contratto.
Infine, a conferma di tale tesi, si riporta l’orientamento secondo il quale nelle società di capitali, dotate di distinta personalità giuridica e titolari di un proprio autonomo patrimonio, l’interesse del socio al potenziamento ed alla conservazione della consistenza economica dell’ente è tutelabile esclusivamente con strumenti interni (ivi compresa la possibilità di insorgere contro le deliberazioni invalide) e non implica la legittimazione a denunciare in giudizio atti esterni ed in particolare ad impugnare i negozi giuridici stipulati dalla società, la cui validità, anche qualora ne venga sostenuta la radicale nullità, resta contestabile solo dalla società stessa (Cass., 25 febbraio 2009, n. 4579).