30 Giugno 2020

La concessione in godimento di un immobile non è affitto di azienda se manca l’organizzazione di un complesso di beni produttivi

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888 – Pres. Uliana – Rel. Cricenti

Parole chiave: Concessione in godimento di immobile – Presenza di beni accessori – Vincolo di interdipendenza e accessorietà – Complesso produttivo unitariamente considerato – Assenza di organizzazione – Affitto di azienda – Insussistenza – Locazione

[1] Massima: Il giudice, nel valutare se un contratto debba essere qualificato come locazione di immobile od affitto di azienda (o di un ramo di essa), deve, in primo luogo, verificare se i beni oggetto di tale contratto fossero già organizzati in forma di azienda; in caso di esito positivo dell’indagine, egli è tenuto, quindi, ad accertare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato o semplicemente quello di un immobile, al cui utilizzo risultino strumentali gli altri beni e servizi eventualmente ceduti, restando poi libero l’avente causa di costituire “ex novo” un’azienda propria.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 2555, 2561, 2562

CASO

Una società che gestiva un centro commerciale e aveva concluso un contratto di affitto di ramo d’azienda avente per oggetto due locali con le rispettive attrezzature e pertinenze, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Parma, alla scadenza, l’affittuaria, perché venisse condannata al rilascio e al risarcimento dei danni.

La sentenza di primo grado, che aveva accolto le domande della società ricorrente, veniva confermata in appello, sebbene l’affittuaria avesse dedotto che il contratto doveva essere qualificato in termini di locazione commerciale, che la disdetta era da reputarsi quindi inefficace e che il rapporto doveva intendersi prorogato per ulteriori dieci anni.

L’affittuaria proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, l’errata considerazione, da parte dei giudici di merito, dei beni costituenti l’azienda, la corretta valorizzazione dei quali avrebbe dovuto condurre a riqualificare il rapporto in termini di locazione commerciale.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che la fattispecie negoziale fosse stata ricondotta all’affitto di azienda, sebbene mancasse un complesso di beni organizzati dal cedente nel momento in cui venne stipulato il contratto.

Ciò ha indotto i giudici di legittimità a cassare con rinvio la sentenza impugnata, con assorbimento degli altri motivi di ricorso, mediante i quali era stata lamentata la mancata declaratoria di nullità, da un lato, del contratto d’affitto d’azienda ovvero di locazione (in quanto contenente disposizioni elusive di norme fiscali) e, dall’altro lato, della successiva transazione intervenuta tra le parti (in quanto avente per oggetto un titolo nullo).

QUESTIONI

[1] Il tema dell’affinità e della contiguità tra affitto d’azienda (o di ramo d’azienda) e locazione di immobile commerciale è da tempo dibattuto in dottrina e giurisprudenza.

Esaminando il primo motivo di censura proposto dalla società affittuaria, che ha condotto all’accoglimento del ricorso, i giudici di legittimità hanno indicato i criteri che consentono di distinguere l’uno dall’altra.

Sono note le ragioni che inducono frequentemente le parti a qualificare come affitto d’azienda il contratto con cui viene concesso in godimento un immobile urbano a uso non abitativo, sebbene si possa dubitare, nel caso concreto, che sia effettivamente configurabile un’azienda: da un lato, la sottrazione del rapporto alle disposizioni inderogabili recate dalla disciplina vincolistica in materia di locazioni; dall’altro lato, il migliore trattamento fiscale di cui possono beneficiare le parti (sotto il profilo dell’assoggettabilità del contratto all’imposta di registro in misura fissa, anziché proporzionale, per effetto del combinato disposto degli artt. 3 d.P.R. 633/1972 e 40 d.P.R. 131/1986).

Secondo la sentenza che si annota, sulla scorta dei precedenti che si sono occupati dell’individuazione della natura dell’azienda (che, in termini giuridici, costituisce l’apparato strumentale che l’imprenditore utilizza per lo svolgimento dell’attività d’impresa), la sua caratteristica fondamentale dev’essere individuata nell’organizzazione impressa per l’esercizio di un’attività: l’art. 2555 c.c., infatti, definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa”.

Se il dato normativo mette già in luce questo determinante aspetto, ciò che consente di realizzare l’unitarietà del complesso di beni che dà luogo all’universitas in cui consiste l’azienda e che assume rilievo pregnante ai fini della distinzione tra locazione e affitto d’azienda è l’organizzazione data dall’imprenditore in vista dell’esercizio dell’impresa. D’altra parte, come osservato dai giudici di legittimità, “è proprio l’organizzazione impressa ai beni che consente di considerare azienda anche il complesso di beni appartenenti a soggetti diversi (come nel caso in cui l’imprenditore si serva sia di beni propri che di beni avuti in godimento da terzi), nonché aventi una destinazione non unitaria, ossia diversa da bene a bene quanto alla natura di ciascuno, purché si tratti di destinazioni convergenti nella finalità di esercitare l’impresa”.

Poiché tale unitarietà caratterizza anche la circolazione dell’azienda, essa deve già sussistere quando avviene la concessione in godimento a terzi: ciò significa che, al momento della conclusione del contratto, non può prescindersi dall’esistenza di questa organizzazione di beni.

In effetti, poiché la concessione in godimento dell’azienda presuppone la sua preesistenza, anche il suo elemento identificativo e caratteristico – ossia l’organizzazione impressa dal cedente – deve necessariamente essere già riscontrabile, sicché non risulta compatibile con l’affitto d’azienda la concessione in godimento di beni che sarà poi l’avente causa a organizzare in vista dell’esercizio dell’impresa.

Un tanto, secondo i giudici di legittimità, non confligge con il principio – pure affermato dalla giurisprudenza – secondo cui può essere ravvisata un’azienda anche se la produttività dei beni non è attuale, ma solo potenziale: un conto, infatti, è l’organizzazione dei beni ai fini dell’impresa (che deve sussistere fin dall’inizio, affinché possa parlarsi di azienda), un conto è la loro attitudine alla produttività (che, presente l’organizzazione, può essere attuale o anche solo potenziale).

Come rilevato nella sentenza, “il fatto che la produttività dei beni possa non essere attuale ma solo potenziale non significa che si debba fare a meno del requisito della organizzazione, ossia della necessità che quei beni siano, al momento della cessione o dell’affitto, organizzati verso un fine produttivo, che può anche iniziare successivamente, ossia non essere attuale, ma che deve dipendere dalla organizzazione impressa dal cedente”.

Perché si possa parlare di concessione in godimento di azienda, l’attitudine a produrre deve dunque sussistere al momento della cessione ed essere l’effetto ovvero la conseguenza dell’organizzazione impressa dal cedente, anziché della natura o della destinazione dei singoli beni.

In alcuni casi, peraltro, la mera attitudine alla produttività non è sufficiente affinché si possa parlare di azienda: ci si riferisce, nello specifico, all’ipotesi in cui oggetto del contratto sia una struttura alberghiera, visto che l’art. 1, comma 9-septies, d.l. 12/1985 stabilisce che si ha locazione di immobile e non affitto di azienda quando l’attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore, fondando una presunzione iuris et de iure circa la natura locatizia del rapporto, come tale assoggettato alla disciplina vincolistica dettata dalla l. 392/1978. Pertanto, laddove l’attività svolta dal conduttore e l’organizzazione dei beni aziendali coincidano con la prima destinazione dell’immobile all’esercizio dell’attività alberghiera, si avrà senz’altro locazione e non affitto d’azienda.

Più in generale, secondo la sentenza che si annota, poiché elemento decisivo, ai fini della ravvisabilità di un’azienda, è la preesistenza dell’impresa, ovvero dell’elemento organizzativo che unifica e indirizza i beni al suo esercizio, qualora l’impresa sia iniziata dall’avente causa o, per meglio dire, sia costui a imprimere per la prima volta una tale organizzazione ai beni cedutigli o concessigli in godimento, non si potrà parlare di cessione o di affitto d’azienda.

Il fatto che l’organizzazione dei beni produttivi debba essere impressa dal cedente non esclude, peraltro, che l’avente causa possa riorganizzarli secondo un proprio programma d’impresa, o addirittura adibirli all’esercizio di un’impresa diversa, posto che, secondo la giurisprudenza, affinché sia configurabile un contratto di affitto d’azienda non è indispensabile che siano ceduti in godimento tutti gli elementi che normalmente la costituiscono, compresi quelli immateriali, ma è sufficiente che lo siano alcuni, purché nel loro complesso permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine (eventualmente anche potenziale) all’esercizio dell’impresa, sia pure con la successiva integrazione da parte dell’affittuario (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2016, n. 10154; Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 2004, n. 23496).

Poiché, dunque, l’esistenza dell’organizzazione è determinante ai fini della ravvisabilità di un’azienda, l’importante è che essa ricorra al momento della conclusione del contratto (diversamente dall’ipotesi in cui si sia in presenza di singoli beni che sarà poi l’avente causa a organizzare per l’esercizio dell’impresa).

Per stabilire, dunque, se oggetto del contratto (in particolare quando si tratti di un immobile) è un complesso di beni già organizzati dal dante causa oppure no, si può fare riferimento ai seguenti elementi:

  • indipendentemente dall’estensione dell’azienda (e anche a prescindere dal fatto che se ne ritengano elementi costitutivi solo i beni oggetto di diritti reali – ossia i beni organizzati per mezzo di tali diritti – o anche beni o servizi non organizzabili con gli strumenti della proprietà o di altro diritto reale), la preesistenza al contratto di un elemento di organizzazione imputabile al dante causa, di modo che, se questi cede il godimento di singoli beni (che pure potenzialmente si prestano a costituire un’azienda, ma solo dopo che sia stata loro impressa un’organizzazione da parte dell’avente causa), dovrà parlarsi di locazione;
  • la sussistenza dell’avviamento, quale indice della preesistenza di un’impresa (e, dunque, dell’organizzazione dei beni oggetto del contratto), anche in considerazione del fatto che il legislatore, nel richiamare all’art. 2562 c.c. le norme dettate in materia di usufrutto d’azienda, ha inteso, nel contempo, consentire all’affittuario di trarre gli utili consentiti dallo stato in cui si trova il complesso aziendale e al dante causa di conseguirne la retrocessione integro nella sua funzionalità e nella sua organizzazione;
  • il rilievo e l’importanza obiettivamente rivestiti dall’immobile rispetto agli altri beni o servizi oggetto del contratto, non essendo di per sé incompatibile con la locazione il fatto che, oltre al godimento dell’immobile, siano previste a carico del locatore prestazioni a esso accessorie, posto che la locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto d’azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene (l’immobile concesso in godimento) che assume una posizione di assoluta e autonoma centralità nell’economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali, legati materialmente o meno a esso, assumono carattere di accessorietà, rimanendo a esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione, mentre nell’affitto di azienda lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni mobili e immobili legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato (Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2017, n. 24276 e Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2006, n. 20815).

Nella fattispecie esaminata, i giudici di legittimità hanno ritenuto errata la riconduzione del rapporto all’affitto d’azienda, vuoi perché non costituiva circostanza significativa il fatto che il locale oggetto di contratto fosse situato all’interno di un centro commerciale (essendo evidente che tale collocazione non era decisiva per qualificare il contratto e non era presuntiva della sussistenza di avviamento aziendale riferibile alla collocazione dell’immobile nel centro commerciale e alla sua contiguità con gli altri locali, piuttosto che al conduttore e alla sua iniziativa commerciale), vuoi perché gli elementi ceduti insieme al locale (massetto, registratore di cassa, quattro rail per negozio e gabinetto) erano insufficienti per costituire un’azienda, ovvero per ritenere la preesistenza di un’organizzazione impressa dal cedente, vuoi perché anche gli ulteriori indici considerati (possibilità di sfruttare le aree comuni del centro commerciale e di godere delle attrezzature, diritto di ricevere i servizi e di utilizzare il know-how e la licenza commerciale) non erano incompatibili con la locazione, trattandosi di prestazioni qualificabili come accessorie.

L’errore di valutazione commesso dai giudici di merito risiedeva quindi nel fatto di avere conferito rilievo decisivo a tali elementi, senza verificare se, al momento della conclusione del contratto, esistesse un’organizzazione impressa dal dante causa ai beni concessi in godimento.

Ovviamente, ai fini qualificatori, il nomen iuris dato dalle parti al contratto può essere considerato un indizio della natura del rapporto, ma giammai un elemento decisivo o vincolante, potendovi anche essere sottese finalità elusive (quali la sottrazione del rapporto alla disciplina vincolistica della locazione). Sotto questo profilo, nella sentenza impugnata era stato attribuito valore confessorio alla circostanza per cui l’affittuaria aveva, a propria volta, concesso in godimento il medesimo bene a terzi con accordo qualificato come cessione di azienda (motivo per cui lo stesso soggetto non poteva pretendere una qualificazione diversa da quella che esso stesso aveva dato per presupposta); tuttavia, come evidenziato dai giudici di legittimità, la confessione ha per oggetto fatti (sfavorevoli alla parte da cui la confessione proviene) e non può vertere su qualificazioni giuridiche, sicché tale circostanza non vincolava il giudice né a sussumere l’atto nella relativa tipologia contrattuale, né a trarne prova circa la figura negoziale ricorrente nel caso di specie.

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