15 Aprile 2020

Inadempiente il promittente venditore che non sia proprietario del bene alla scadenza del termine per la stipula del contratto definitivo

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2020, n. 787 – Pres. Manna – Rel. Tedesco 

Parole chiave: Contratto preliminare di compravendita – Cosa non di proprietà del promittente venditore – Acquisto della proprietà successivamente alla scadenza del termine per la stipula del contratto definitivo – Clausola risolutiva espressa – Facoltà per il promittente venditore di avvalersene – Insussistenza

[1] Massima: Il promittente venditore che non sia proprietario del bene promesso in vendita né al momento della conclusione del preliminare, né alla scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo, non può avvalersi della clausola che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso di mancato rispetto del termine fissato per la stipula del definitivo.  

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1183, 1351, 1456, 1457, 1478, 1479.

Parole chiave: Contratto preliminare di compravendita – Immissione anticipata dei promissari acquirenti nel possesso dell’immobile – Contratto che preveda il pagamento di un corrispettivo mensile – Assenza di gratuità – Impossibilità di qualificare il contratto come comodato – Recesso ad nutum del promittente venditore – Illegittimità

[2] Massima: Il contratto che preveda l’immissione anticipata dei promissari acquirenti nel possesso dell’immobile a fronte del pagamento di un corrispettivo mensile per l’uso temporaneo non può essere qualificato come comodato, difettandone la caratteristica essenziale della gratuità, sicché il promittente venditore non è legittimato a pretendere la restituzione dell’immobile in virtù di quanto previsto dall’art. 1810 c.c.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1351, 1362, 1571, 1803, 1810.

CASO

La vicenda oggetto di controversia trae origine da un contratto preliminare di compravendita avente per oggetto un immobile sito in Roma, che contemplava, quale causa di risoluzione, la mancata stipula del contratto definitivo entro tre mesi dalla comunicazione del perfezionamento della pratica di condono ai promissari acquirenti; questi ultimi erano stati immessi anticipatamente nel possesso dell’immobile in forza di distinto contratto, che – qualificato come comodato – prevedeva il pagamento anticipato di un corrispettivo mensile per l’uso temporaneo.

Il promittente venditore agiva quindi in giudizio, chiedendo, da un lato, che fosse accertata la risoluzione del preliminare (atteso che, nonostante avesse comunicato il perfezionamento della pratica di condono, i promissari acquirenti non si erano presentati innanzi al notaio per la stipula del contratto definitivo) e, dall’altro lato, che gli venisse restituito l’immobile.

I convenuti si opponevano alla domanda, lamentando di non avere mai, in effetti, ricevuto la comunicazione dell’esito positivo della pratica di condono ed evidenziando che, al momento della notifica dell’atto di citazione, l’attore non era ancora proprietario dell’immobile, avendone acquistato la proprietà solamente due mesi dopo.

La domanda del promittente venditore, rigettata in primo grado, veniva accolta in appello, essendo stata ravvisata la sussistenza del presupposto della risoluzione di diritto del contratto (ossia la prova che i promissari acquirenti avevano ricevuto la comunicazione del rilascio del condono, a fronte della mancata stipula del contratto definitivo); i giudici di secondo grado accoglievano anche la richiesta di restituzione dell’immobile, ritenendola legittima alla stregua dell’art. 1810 c.c. (visto che i promissari acquirenti erano stati immessi nel possesso in forza di contratto di comodato senza determinazione di durata e collegato alle vicende del preliminare di compravendita).

I promissari acquirenti, soccombenti in secondo grado, proponevano ricorso per cassazione, articolando cinque motivi di censura.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che, diversamente da quanto affermato dalla corte d’appello, il promittente venditore non può avvalersi della clausola che prevede la risoluzione del contratto in caso di mancato rispetto del termine per la stipula del definitivo se, alla scadenza di tale termine, non è divenuto proprietario della cosa promessa in vendita.

[2] La Corte di cassazione ha ritenuto errata la sentenza impugnata anche nella parte in cui aveva riconosciuto il diritto del promittente venditore di ottenere la restituzione dell’immobile nel cui possesso i promissari acquirenti erano stati anticipatamente immessi, dal momento che il contratto che consentiva l’uso temporaneo del bene dietro il pagamento di un corrispettivo mensile non poteva essere qualificato come comodato, con la conseguenza che non era configurabile il diritto di recesso ad nutum attribuito al comodante dall’art. 1810 c.c.

QUESTIONI

[1] Con riferimento alla prima delle questioni esaminate, i giudici di legittimità hanno affermato che il promittente venditore, non avendo acquistato la proprietà del bene alla scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo e non essendo dunque in grado di trasferirla al promissario acquirente, non era legittimato ad avvalersi della clausola risolutiva espressa contenuta nel preliminare.

Nel caso di specie, quindi, le parti avevano concluso un contratto preliminare di compravendita di cosa altrui: si tratta di figura negoziale pacificamente ammessa, poiché, risultando applicabile la disciplina prevista dagli artt. 1478, 1479 e 1480 c.c., l’assenza di titolarità della cosa in capo al promittente venditore al momento della conclusione del preliminare non ne determina l’invalidità (Cass. civ., sez. II, 29 dicembre 2010, n. 26367).

D’altra parte, in questi casi, l’altruità della cosa promessa in vendita impedisce di chiedere l’esecuzione in forma specifica del contratto ai sensi dell’art. 2932 c.c. fino a quando il promittente venditore non ha acquistato la proprietà del bene (Cass. civ., sez. II, 27 aprile 2016, n. 8417; Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 1996, n. 51; Cass. civ., sez. III, 16 settembre 1981, n. 5137): il preliminare di vendita di cosa altrui, infatti, rimane pur sempre una fattispecie bilaterale tra promittente venditore e promissario acquirente, poiché è sempre il promittente alienante che ha l’obbligo di fare sì che il proprietario presti il suo consenso alla stipula del contratto definitivo, al punto che, anche nell’ipotesi in cui aderisca al preliminare, il terzo proprietario della cosa promessa in vendita non assume alcun obbligo diretto nei confronti del promissario acquirente, in quanto non diviene parte del preliminare di vendita di cosa altrui, ma assume un obbligo esclusivamente nei confronti del promittente venditore (Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2014, n. 18097).

Non va, peraltro, sottaciuto che la giurisprudenza ritiene ammissibile la pronuncia della sentenza ex art. 2932 c.c. anche qualora una delle condizioni necessarie per il trasferimento della proprietà del bene, insussistente al momento della proposizione della domanda, sopravvenga in corso di causa (così, per esempio, Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 2004, n. 1438, ha affermato che, trovando lo ius superveniens applicazione ai rapporti non ancora esauriti, la regolarizzazione urbanistica dell’immobile promesso in vendita avvenuta sulla base delle prescrizioni dettate da una disciplina entrata in vigore successivamente alla scadenza del termine non essenziale per la stipula del contratto definitivo determina il verificarsi delle condizioni per il trasferimento della proprietà del bene ai sensi dell’art. 2932 c.c.).

La sentenza annotata ha osservato che, nel caso di preliminare, non è applicabile il principio stabilito dall’art. 1479, comma 1, c.c. (a mente del quale il compratore può chiedere la risoluzione del contratto se, quando l’ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore e se questi, nel frattempo, non gliene ha fatto acquistare la proprietà), giacché, fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo, il promittente venditore può adempiere all’obbligazione di procurare la proprietà del bene al promissario acquirente, acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest’ultimo a trasferirgliela (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2015, n. 4164; Cass. civ., sez. un, 18 maggio 2006, n. 11624).

Se, quindi, è certamente consentito impegnarsi a vendere un bene di cui non si è ancora proprietari, è altrettanto vero che, scaduto il termine per stipulare il contratto definitivo, se il promittente venditore non ne ha, nel frattempo, acquistato la proprietà o non si è comunque messo nelle condizioni di farla acquistare al promissario acquirente, è da considerarsi inadempiente.

Da tali principi, la Corte di cassazione ha evinto “da un lato, che i promissari acquirenti, seppure ignari dell’altruità della cosa, non possono chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine; dall’altro, per una ragione speculare, che i promissari acquirenti non sono inadempienti se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del contratto, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene. Ne discende che il promittente venditore non può in questa situazione avvalersi della clausola risolutiva espressa eventualmente pattuita per il caso di inutile decorso del termine, perché manca l’essenziale condizione dell’inadempimento del promissario”.

Allo stesso modo, d’altro canto, l’art. 1460 c.c. non consente alla parte di eccepire l’inadempimento dell’altra, se la propria obbligazione è già scaduta ed è rimasta inadempiuta (vieppiù che il comma 2 esclude la legittimità del rifiuto di adempiere che risulti contrario a buona fede).

[2] Sulla seconda questione, inerente alla restituzione del bene nel cui possesso i promissari acquirenti erano stati immessi già al momento della conclusione del preliminare, i giudici di legittimità hanno avuto buon gioco nel ribaltare la decisione di secondo grado, che aveva accolto la domanda del promittente venditore.

Infatti, la circostanza per cui il contratto (distinto rispetto al preliminare, sebbene a questo collegato) in forza del quale era stato concesso ai promissari acquirenti di disporne anticipatamente rispetto alla conclusione del definitivo prevedeva l’obbligo di pagare un corrispettivo per l’uso temporaneo, risultava determinante per escluderne la gratuità, che rappresenta requisito essenziale del comodato.

Come osservato dalla sentenza che si annota, la gratuità del contratto è compatibile con l’apposizione, a carico del comodatario, di un onere di consistenza tale da non integrare un corrispettivo del godimento del bene, mentre viene meno se il vantaggio conseguito dal comodante assume natura di controprestazione, ossia quando il beneficio che si viene a determinare in favore del concedente – anziché configurarsi come indiretto o mediato, tale da soddisfare un interesse di carattere secondario – si ponga in rapporto di corrispettività con quello concesso al comodatario (la pronuncia richiama Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2001, n. 3021, Cass. civ., sez. III, 28 maggio 1996, n. 4912 e Cass. civ., sez. II, 25 settembre 1990, n. 9718).

Ovviamente, ai fini della decisione della controversia, non assumeva rilievo il fatto che il promittente venditore, all’epoca in cui venne concluso il contratto in forza del quale i promissari acquirenti avevano acquisito la disponibilità anticipata dell’immobile, non fosse proprietario di quest’ultimo: è pacifico, infatti, che la concessione tanto in comodato quanto in locazione non presuppone la proprietà del bene, quanto piuttosto la disponibilità della cosa (sicché, al limite, si sarebbe trattato di affrontare il problema della titolarità, in capo al promissario acquirente, di un potere dispositivo che lo legittimasse a immettere nel possesso dell’immobile promesso in vendita i futuri acquirenti).

Al di là del fatto che, secondo i giudici di legittimità, il contratto non poteva qualificarsi come comodato, un aspetto interessante riguardava la questione della durata: i promissari acquirenti, infatti, si erano opposti alla richiesta di restituzione dell’immobile sul presupposto che, non trattandosi di comodato, non fosse possibile per il promittente venditore recedere ad nutum (com’è concesso quando al contratto non è apposto un termine di durata).

In realtà, se – come pare di potersi evincere – l’immissione anticipata nel possesso era stata concessa in funzione e in previsione della futura vendita del bene, è lecito sostenere che, anche in assenza di esplicita fissazione di un termine, il comodato fosse stato concesso per un uso determinato e, dunque, per un tempo determinabile (ossia collegato al termine fissato per la conclusione del contratto definitivo di compravendita; si veda, per esempio, Cass. civ., sez. III, 10 febbraio 2017, n. 3553): in quest’ottica, quindi, si sarebbe dovuto valutare la legittimità della pretesa restitutoria del promittente venditore – sempre, beninteso, che si fosse trattato di comodato e non di locazione – assumendo come presupposto non già l’assenza di un termine di scadenza, ma l’esaurimento della funzione sottesa alla concessione della disponibilità della cosa (alla stregua, dunque, dell’art. 1809 c.c., a mente del quale il comodatario è obbligato a restituire la cosa, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto).