11 Febbraio 2020

La trasformazione della società in comunione d’azienda non preclude la dichiarazione di fallimento

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. I, 19 giugno 2019, n. 16511 – Pres. Genovese – Rel. Amatore

Parole chiave: Società – Trasformazione in comunione d’azienda – Cancellazione della società dal registro delle imprese – Dichiarazione di fallimento – Ammissibilità

[1] Massima: Poiché nelle ipotesi di trasformazione eterogenea si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti per natura oltre che per forma, la nascita di una comunione di azienda a scopo di godimento ai sensi dell’art. 2248 c.c. cui l’ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.

Disposizioni applicate: r.d. 267/1942, art. 10; cod. civ., artt. 2248, 2500-septies, 2500-novies e 2495

CASO

Nel maggio del 2017 veniva deliberata la trasformazione di una società a responsabilità limitata in comunione d’azienda tra i soci ai sensi dell’art. 2500-septies c.c.; nel luglio dello stesso anno veniva iscritta nel registro delle imprese la trasformazione della società e la sua cancellazione, ma il mese successivo il Tribunale di Napoli Nord ne dichiarava il fallimento, in base all’art. 10 l.fall.

La sentenza veniva confermata dalla Corte di Appello di Napoli, dal momento che le censure mosse avverso la dichiarazione di fallimento sul presupposto che l’art. 10 l.fall. non fosse applicabile nel caso di specie, stante la prosecuzione dei rapporti patrimoniali in capo ai partecipanti alla comunione d’azienda e l’assenza del presupposto fattuale della cessazione dell’attività d’impresa, venivano disattese.

Avverso la pronuncia di secondo grado veniva quindi proposto ricorso per cassazione, con cui veniva nuovamente sostenuta l’inapplicabilità dell’art. 10 l.fall. nell’ipotesi di trasformazione eterogenea comportante il passaggio da una società di capitali a una comunione d’azienda a scopo di godimento.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, confermando l’applicabilità dell’art. 10 l.fall. anche nel caso in cui la cancellazione della società dal registro delle imprese consegua non già alla cessazione dell’attività, ma alla sua trasformazione in comunione d’azienda.

QUESTIONI

[1] Nell’affrontare i motivi di doglianza articolati con il ricorso per cassazione, i giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che la norma di cui all’art. 10 l.fall. presuppone l’intervento di un fenomeno estintivo dell’impresa attinta dalla dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che, per verificarne l’applicabilità nel caso di specie, occorreva stabilire “se la “trasformazione” prevista dall’art. 2500 septies cod. civ. – che si è sviluppata, nel caso ora in esame, attraverso la mutazione della società di capitali in comunione di godimento dell’azienda – abbia dato causa ad un fenomeno semplicemente evolutivo e modificativo del contratto sociale (come avviene pacificamente nel caso delle trasformazioni societarie omogenee) ovvero ad un fenomeno estintivo della società con la formazione di un nuovo ente (e con effetti pertanto successori), giacché dall’accoglimento dell’uno o l’altra soluzione discende invero l’applicabilità o meno del disposto normativo di cui all’art. 10 fall., con conseguente fallibilità della società debitrice”.

Infatti, costituisce insegnamento consolidato quello per cui la trasformazione di una società da un tipo a un altro va – in generale – considerata come modificazione dell’atto costitutivo della società (che continua a esistere in una nuova veste) e si traduce in una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto e non nella sua estinzione con creazione di uno nuovo; pertanto, nonostante la variazione dell’assetto e della struttura organizzativa, non si verifica alcuna ripercussione di carattere successorio o estintivo con riguardo ai rapporti sostanziali e processuali facenti capo all’originaria organizzazione societaria (nella sentenza che si annota vengono richiamate le pronunce di Cass. civ., sez. I, 19 maggio 2016, n. 10332 e di Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2011, n. 13467).

Fermo restando ciò, la trasformazione di una società in impresa individuale (o viceversa) determina invece un rapporto di successione tra soggetti distinti, dal momento che persona fisica e persona giuridica si differenziano per natura oltre che per forma (così Cass. civ., sez. I, 30 gennaio 1997, n. 965); di conseguenza, la nascita di un’impresa individuale, cui quella collettiva trasferisca il proprio patrimonio, non preclude la dichiarazione di fallimento della società cancellatasi dal registro delle imprese entro il termine previsto dall’art. 10 l.fall. (così Cass. civ., sez. I, 6 febbraio 2002, n. 1593), giacché si tratta pur sempre di entità diverse.

Nel caso portato all’attenzione dei giudici di legittimità, si è assistito “ad una “trasformazione eterogenea”, per come prevista dall’art. 2500 septies, cod. civ., essendosi “trasformata” la società di capitali in una comunione di godimento di un’azienda, con ciò determinandosi il “passaggio” da un ente avente forma societaria ad una comunione su un complesso di beni aziendali”.

Pertanto, secondo la Corte di cassazione, si è necessariamente verificato un fenomeno di successione tra soggetti ed entità distinte sia per forma che per natura, anche in considerazione del fatto che i soci avevano indubbiamente voluto costituire una mera comunione di godimento (sicché non era nemmeno ravvisabile una società di fatto): la circostanza per cui l’originaria società di capitali si era trasformata in una comunione di godimento dell’azienda tra gli ex soci, a loro volta trasformatisi in contitolari dei beni compresi nel compendio aziendale al solo fine di godere dei frutti da essi prodotti, costituiva dato di fatto pacifico e non contestato, visto che la chiara volontà emergente dalla delibera adottata dall’assemblea straordinaria della società non dava adito ad alcun dubbio in proposito.

Non sussistevano dunque i presupposti per reputare operante il principio espresso da numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità (in particolare, dalle citate Cass. civ., sez.II, 6 febbraio 2009, n. 3028; Cass. civ., sez. II, 27 novembre 1999, n. 13291; Cass. civ., sez. I, 3 aprile 1993, n. 4053; Cass. civ., sez. II, 10 novembre 1992, n. 12087; Cass. civ., sez. II, 20 febbraio 1984, n. 1251), in forza del quale, laddove il godimento dell’azienda si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti alla comunione, è configurabile l’esercizio di un’impresa collettiva (nella forma della società regolare o della società irregolare o di fatto), dal momento che l’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento (cui fa riferimento l’art. 2248 c.c., richiamando le norme dettate dagli artt. 1100 e seguenti c.c.) e società è rappresentato dallo scopo lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento e in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni.

Alla luce di tali premesse e considerazioni, i giudici di legittimità sono giunti alla conclusione per cui nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee – nelle quali si assiste al passaggio da una società a una comunione di godimento di azienda o a un’impresa individuale – si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, attesa la diversità di natura, oltre che di forma, sicché la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche ai sensi dell’art. 2248 c.c. (cui l’ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio) non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.

Diversamente opinando, sempre secondo i giudici di legittimità, si correrebbe il rischio di favorire operazioni negoziali volte a determinare, in prossimità della decozione e della dichiarazione di fallimento delle società, la trasformazione di queste ultime in entità giuridiche non fallibili, impedendo l’apertura del concorso dei creditori sui beni della società debitrice.

In questo modo, sono stati respinti tutti i motivi di ricorso, con i quali – sotto diversi aspetti – era stata argomentata la sostanziale diversità dei fenomeni contemplati, rispettivamente, dall’art. 10 l.fall. (riferentesi, secondo quanto dedotto nel ricorso, alla cancellazione della società dal registro delle imprese per intervenuta cessazione dell’attività e non a seguito di trasformazione) e dall’art. 2500-septies c.c. (riguardante la costituzione di una situazione di contitolarità dell’azienda non associata allo svolgimento di attività economica e con perdita della natura imprenditoriale del soggetto trasformato), al fine di escludere che nella vicenda che aveva interessato la società dichiarata fallita fossero ravvisabili i profili di carattere commerciale e lucrativo sottesi alla fattispecie considerata dalla disposizione dettata dall’art. 10 l.fall.