9 Gennaio 2020

La condanna alla consegna è inidonea a fondare l’esecuzione per espropriazione

di Cecilia Vantaggiato Scarica in PDF

Cass., sez. VI, 18/12/2019, n. 33723 – Pres. Frasca, rel. Tatangelo

In caso di condanna alla consegna di beni mobili di cui il debitore abbia perduto la disponibilità, il diritto del creditore a ottenere il pagamento dell’equivalente monetario dei suddetti beni non più consegnabili all’obbligato va fatto valere in un nuovo processo di cognizione che ne accerta la effettiva sussistenza e che in concreto ne liquidi l’importo, non potendo essere azionato direttamente in via esecutiva sulla base del semplice titolo di condanna alla consegna, di per sé non idoneo a fondare l’esecuzione per espropriazione, ma solo quella di cui agli artt. 605 e segg. c.p.c., tanto meno in base a una auto-quantificazione del valore dei beni perduti effettuata dal creditore, anche ove si assuma esistere un prezzo ufficiale di mercato.

Caso

L.V.S. ha proposto opposizione ad un precetto di pagamento dell’importo di Euro 137.633,00 intimatole dalla Banca sulla base di una sentenza che – nell’accogliere una sua domanda risarcitoria contro la banca – l’aveva condannata a restituire alla stessa banca alcuni titoli acquistati con gli interessi maturati sugli stessi.

Il Tribunale fiorentino dichiarava l’inammissibilità dell’opposizione a precetto proposta da L.V.S.

La Corte d’appello, viceversa, dichiarava fondata l’opposizione e condannava l’istituto bancario al pagamento delle spese di lite.

La banca proponeva ricorso per Cassazione.

Soluzione

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha statuito che la condanna a consegnare beni mobili, non eseguibile a causa della perdita di disponibilità degli stessi da parte del debitore, non consente al creditore di ottenere il pagamento dell’equivalente monetario mediante espropriazione forzata, dovendosi instaurare un nuovo giudizio di cognizione che accerti an e quantum della pretesa, condannando all’equivalente pecuniario.

Questioni

La questione oggetto della sentenza attiene alla possibilità per il creditore che abbia ottenuto la condanna alla consegna di beni mobili di utilizzare il medesimo titolo per fondare un’espropriazione forzata a carico del medesimo debitore per ottenere l’equivalente monetario.

L’istituto di credito ha sostenuto, infatti, come l’impossibilità di procedere ad esecuzione forzata per consegna di beni mobili (titoli), di cui il debitore si sia volontariamente spogliato o ne abbia comunque perso la disponibilità, dia luogo a un obbligo automatico, avente ad oggetto il pagamento dell’equivalente monetario. Il creditore, secondo la banca, può far espropriare i beni del debitore secondo quanto previsto dal 2910 c.c., in attuazione del principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c.

La Corte, tuttavia, respinge tale tesi.

Anzitutto, può osservarsi che se è vero che la scelta della tipologia d’esecuzione spetti esclusivamente al creditore, parimenti non deve tralasciarsi che la stessa dovrà tener conto del titolo esecutivo su cui l’esecuzione si fonda. L’esecuzione per consegna o rilascio, infatti, rientra fra i tipi di esecuzione forzata in forma specifica, per i quali non è prevista una fase in cui i beni pignorati debbano essere convertiti in denaro. Il fine del processo esecutivo per consegna/rilascio è dato dalla volontà del debitore di ottenere la disponibilità materiale di un determinato bene: tale esecuzione mira, infatti, al trasferimento, dall’esecutato all’esecutante, del potere di fatto sul bene indicato nel titolo, potere inteso come detenzione corpore dello stesso; talché, il suo effetto consiste in una modificazione della realtà materiale: prima dell’esecuzione il bene è nel dominio dell’obbligato, dopo l’esecuzione sarà in quello dell’avente diritto (così Cass., 28-06-2012, n. 10865).

La scelta della procedura esecutiva, quindi, dipende intimamente dall’oggetto del titolo esecutivo. Sono rari, invero, i casi in cui il codice rimette al debitore una deviazione dalla scelta creditoria: si pensi all’ipotesi di conversione del pignoramento ex art. 495 c.p.c., in cui la parte debitrice può chiedere di sostituire alle res o ai crediti pignorati una somma di denaro pari all’importo dovuto al creditore pignorante. La ratio della norma è evidente: consentire al debitore di liberare immediatamente le res gravate dalla procedura esecutiva mediante la corresponsione della somma di denaro equivalente.

Può notarsi, quindi, come alla totale discrezionalità che l’ordinamento attribuisce al creditore nella scelta del mezzo esecutivo, si frappone il limite intrinseco a tale scelta, dato dal contenuto del comando giurisdizionale espresso nel titolo esecutivo, non potendosi consentire al creditore di passare da una tipologia all’altra d’esecuzione, con lesione del diritto di difesa del debitore, il quale resterebbe esposto a plurime forme di aggressione da parte del creditore mediante forme e tipologie diverse di esecuzione forzata (per espropriazione forzata, anziché in forma specifica, come previsto dal titolo esecutivo).

L’istituto di credito ha richiesto, nei fatti, una modifica del giudicato ottenuto, ritenendo possibile una conversione automatica della condanna alla consegna dei beni mobili, azionabili con l’esecuzione forzata per consegna, in condanna al pagamento dell’equivalente monetario, azionabile mediante espropriazione forzata.

Una richiesta di tal genere mina la stessa stabilità del giudicato nonché la certezza dei rapporti giuridici.

Sul piano processuale, se così fosse, si consentirebbe inaccettabilmente di modificare il contenuto della sentenza ottenuta, in spregio al petitum della domanda giudiziale: un conto è richiedere la consegna di beni mobili, altro è pretendere la condanna al pagamento di una somma di denaro. Se il sistema oggi prevede il divieto di mutatio libelli in corso di causa, a maggior ragione ciò dovrebbe valere nel caso di statuizione in sentenza. Sussiste, invero, una corrispondenza biunivoca fra la res in iudicium deducta e la res decisa, che non può essere alterata ad libitum della parte, tanto meno post rem iudicatam.

In secondo luogo, la pretesa della banca circa la conversione dell’oggetto della originaria obbligazione di consegna in obbligazione di pagamento di somma di denaro incontra un limite sostanziale.

Tale operazione, infatti, difficilmente può ricondursi ad un’ipotesi di datio in solutum né ad una novazione oggettiva: come noto, l’art. 1230 c.c. richiede l’accordo fra le parti e l’espressa volontà di novare il rapporto obbligatorio, nel caso di specie assente.

Nemmeno potrebbe farsi riferimento al fatto che la consegna dei titoli sia un debito di valore, posto che, come osservato dalla stessa Cassazione con la sentenza n. 7697 del 2 aprile 2014, “il momento in cui il debito di valore si converte in debito di valuta non può che essere quello in cui diventa incontestabile la sua liquidazione, e cioè quello in cui diventa definitiva la sentenza che tale liquidazione effettua”, con ciò intendendosi che l’equivalente monetario potrà essere determinato solo dalla sentenza e non mediante una “autoliquidazione” del valore dei beni perduti effettuata dal creditore, anche laddove si assuma esistere un prezzo ufficiale di mercato di essi.

In definitiva, la Corte rigetta il ricorso, ritenendo che la pretesta creditoria dell’istituto bancario debba essere fatta valere in un nuovo processo di cognizione, che ne accerti la effettiva sussistenza e che in concreto ne liquidi l’importo, non potendo essere azionato direttamente in via di espropriazione forzata sulla base del semplice titolo di condanna alla consegna, di per sé non idoneo a fondare l’esecuzione per espropriazione forzata, ma solo l’esecuzione in forma specifica per consegna di beni mobili di cui agli artt. 605 ss. c.p.c.

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