24 Settembre 2019

Valida la clausola del contratto di leasing che pone a carico dell’utilizzatore il rischio di perimento del bene

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2019, n. 13956 – Pres. Armano – Rel. Iannello

Parole chiave: Contratto di leasing – Clausola che pone a carico dell’utilizzatore il rischio di perimento del bene – Vessatorietà – Esclusione – Configurabilità come clausola penale – Esclusione

Massima: Nei contratti di leasing traslativo, la clausola che pone a carico dell’utilizzatore il rischio per la perdita del bene oggetto del contratto, prevedendo l’obbligo di pagamento a titolo di indennizzo di tutti i canoni non ancora scaduti e del prezzo di riscatto, non ha carattere vessatorio, poiché si limita a regolare la responsabilità per la perdita del bene in conformità alla disciplina legale desumibile – in via analogica – dall’art. 1523 c.c. sulla vendita a rate con riserva della proprietà, né può essere qualificata come clausola penale, perché non presuppone l’inadempimento dell’utilizzatore e non ha funzione risarcitoria.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1322, 1382, 1384, 1523

CASO

Una società di leasing agiva in via monitoria affinché venisse ingiunto alla società utilizzatrice dell’autovettura concessa in locazione finanziaria e rubata nel corso del rapporto – che, per tale motivo, era stato dichiarato risolto su iniziativa della concedente – il pagamento dell’importo previsto a titolo di indennizzo per lo scioglimento anticipato del contratto.

Avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano, insorgeva la società utilizzatrice, che lamentava, da un lato, l’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi e, dall’altro lato, la nullità della clausola relativa agli interessi di mora.

L’opposizione veniva, tuttavia, rigettata con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Milano, la quale riteneva valide ed efficaci le clausole in forza delle quali era stato determinato l’importo oggetto dell’ingiunzione di pagamento.

La società utilizzatrice proponeva, quindi, ricorso per cassazione, denunciando il mancato rilievo d’ufficio della nullità delle clausole (risolutiva e penale) in forza delle quali era stato confermato il decreto ingiuntivo opposto e il mancato esercizio del potere di ridurre la penale secondo equità in virtù di quanto previsto dall’art. 1384 c.c.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondati entrambi i motivi, dal momento che, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, la clausola che prevede l’obbligo per l’utilizzatore di corrispondere tutti i canoni non ancora scaduti in caso di furto del bene non può essere considerata vessatoria e non integra una penale, con la conseguenza che, con riguardo a essa, il giudice non può esercitare il potere di riduzione secondo equità previsto dall’art. 1384 c.c.

QUESTIONI

[1] L’analisi della questione sottoposta ai giudici di legittimità prende le mosse dall’esame del contenuto delle clausole del contratto di leasing che, attribuendo al concedente il potere di risolvere il contratto in caso di furto dell’autovettura e di chiedere il pagamento dell’indennizzo pattiziamente convenuto, erano state tacciate di nullità dalla società utilizzatrice, in quanto, da un lato, derogatorie delle regole sancite in tema di risoluzione dei contratti a esecuzione continuata o periodica e, dall’altro lato, determinanti un grave squilibrio contrattuale in danno dell’utilizzatore.

Dette clausole stabilivano, rispettivamente, che:

  • in caso di furto o perdita del bene oggetto del contratto di leasing, l’utilizzatore era tenuto a corrispondere immediatamente al concedente l’indennizzo contrattualmente previsto;
  • in tutti i casi nei quali nel contratto si faceva riferimento a un indennizzo spettante al concedente, lo stesso corrispondeva alla somma di tutti i canoni non ancora scaduti alla data della risoluzione del contratto e del prezzo di eventuale acquisto finale del bene.

La Corte di cassazione evidenzia, dunque, che scopo ed effetto di tali clausole è quello di porre il rischio di perimento della cosa a carico dell’utilizzatore, sicché non vi è alcun aggravamento degli obblighi ai quali quest’ultimo sarebbe stato assoggettato laddove il contratto avesse avuto normale esecuzione.

La nullità di tali clausole (ovvero del loro combinato disposto), secondo i supremi giudici, è da escludersi in ragione del fatto che non vi è alcun contrasto con norme imperative e non può ravvisarsi la carenza di un interesse meritevole di tutela, soprattutto se si considera che una previsione contrattuale di tal fatta è coerente con quanto stabilito dall’art. 1523 c.c. in tema di vendita con riserva della proprietà, cui, secondo giurisprudenza consolidata, è assimilabile la fattispecie del leasing traslativo.

A tale proposito, va ricordato che per leasing traslativo si intende quello che ha per oggetto la concessione in godimento di beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’esercizio dell’opzione di acquisto e dietro il pagamento di canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto; al leasing traslativo si contrappone quello cosiddetto “di godimento”, pattuito con funzione di finanziamento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto, con conseguenziale marginalità dell’eventuale opzione d’acquisto, sicché i canoni configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi.

Nel nostro ordinamento, solo recentemente il contratto di leasing ha trovato un suo compiuto inquadramento positivo: infatti, si deve alla legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 4 agosto 2017, n. 124) la tipizzazione di tale figura contrattuale (fino a quel momento presa in considerazione solo da alcune disposizioni di carattere settoriale, quale l’art. 72-quater della legge fallimentare), ivi definendosi il contratto di locazione finanziaria come quello con cui “la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo”.

Il fatto che la norma, nel prevedere che l’utilizzatore assume tutti i rischi inerenti al bene, riecheggi quanto stabilito dall’art. 1523 c.c. in materia di vendita con riserva della proprietà, conferma la correttezza della tesi sostenuta nella sentenza che si annota, secondo cui la clausola che pone a carico dell’utilizzatore le conseguenze associate al furto, alla perdita o al perimento del bene è da considerarsi perfettamente valida e lecita e non comporta alcuno squilibrio, come affermato da una più che costante giurisprudenza (nel provvedimento vengono citate le pronunce di Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2011, n. 21301, Cass. civ., sez. III, 3 maggio 2002, n. 6369 e Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 1997, n. 1266).

L’affermazione dei giudici di legittimità merita, tuttavia, una precisazione.

Di per sé, la vessatorietà di una clausola contrattuale, qualora il contraente non sia un consumatore (e, nel caso di specie, l’utilizzatore era una società), non ne determina l’invalidità, ma, al limite, l’inefficacia, laddove la clausola non sia stata approvata specificamente ai sensi dell’art. 1341 c.c.

La più grave sanzione della nullità è, invece, sancita dall’art. 36 d.lgs. 206/2005 (Codice del consumo), trattandosi, peraltro, di nullità di protezione, perché, sebbene rilevabile d’ufficio dal giudice, opera solo a vantaggio del consumatore.

Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, il rilievo dell’assenza di vessatorietà nelle clausole contestate non può, dunque, assurgere a elemento dirimente per escluderne la nullità, ma, al limite, può corroborare il giudizio di validità fondato, oltre che sulla sussistenza di un interesse sotteso alla previsione negoziale meritevole di tutela, sulla non ravvisabilità di un contrasto con una norma imperativa, che, secondo quanto è dato capire dalla sentenza, la società ricorrente aveva individuato nell’art. 1458, comma 1, c.c. (anche se non pare che tale disposizione possa considerarsi inderogabile, visto che il principio secondo cui il giudice non può pronunciare i provvedimenti restitutori conseguenti alla declaratoria di risoluzione del contratto in assenza di domanda della parte interessata ne implica il carattere sostanzialmente disponibile; si vedano, a tale proposito, Cass. civ., sez. III, 30 maggio 2003, n. 7829, Cass. civ., sez. II, 14 gennaio 2002, n. 341, Cass. civ., sez. II, 3 aprile 1999, n. 3287 e Cass. civ., sez. II, 26 giugno 1995, n. 7234).

Per quanto concerne, invece, l’ulteriore profilo di censura agitato dalla società ricorrente, consistente nella mancata riduzione dell’importo richiesto dalla società concedente a titolo di indennizzo ai sensi dell’art. 1384 c.c., la sentenza annotata esclude che il giudice potesse operare l’invocata riduzione, dal momento che la clausola che ha come effetto quello di allocare il rischio da perdita del bene per causa non imputabile all’utilizzatore in capo a quest’ultimo prescinde dalla ravvisabilità di un inadempimento e, anzi, lo esclude proprio, non avendo quindi funzione risarcitoria.

In questo modo, non può attribuirsi a una simile clausola il valore e il significato di una penale, dal momento che connotato essenziale di quest’ultima è la sua connessione con l’inadempimento colpevole di una parte: pertanto, non si è in presenza di una clausola penale allorché il collegamento è istituito con un fatto fortuito o, comunque, non imputabile alla parte obbligata.

Una siffatta pattuizione costituisce una condizione o una clausola atipica, che può essere introdotta dalle parti in virtù dell’autonomia contrattuale riconosciuta dall’ordinamento, dovendosi escludere che possa produrre gli effetti specifici propri della clausola penale e, così, che sia assoggettabile al potere del giudice di riduzione secondo equità previsto dall’art. 1384 c.c. (sul punto, viene richiamata Cass. civ., sez. II, 2 aprile 1984, n. 4603, che, in tema di appalto, aveva affermato che non costituisce clausola penale quella con cui l’appaltatore viene legittimato a riscuotere immediatamente, anziché dopo la consegna dell’opera, il prezzo concernente la parte dei lavori eseguiti e il costo dei materiali, in caso di ritardi a lui non imputabili o dovuti a causa di forza maggiore).

Avuto riguardo al profilo dell’inadempimento del contratto di leasing, va, peraltro, sottolineato che la nuova disciplina rinvenibile nel comma 138 dell’art. 1 l. 124/2017 – che si discosta da quanto stabilito dall’art. 1526 c.c. in tema di vendita con riserva della proprietà (da una più che consolidata giurisprudenza finora ritenuto analogicamente applicabile anche in caso di leasing) – prevede che, in conseguenza della risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, il concedente, anziché essere tenuto alla restituzione delle rate riscosse al netto dell’equo compenso dovuto per l’utilizzo della cosa, deve corrispondere quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata a valori di mercato, dedotte (i) la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere in linea capitale e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto e (ii) le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita; l’eventuale differenza negativa deve essere corrisposta dall’utilizzatore al concedente, visto che l’ultimo periodo del comma 138 sancisce che “Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente”.