16 Luglio 2019

Invalido il preliminare di preliminare se vi è identità di contenuto dei contratti

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. VI, 20 marzo 2019, n. 7868 – Pres. D’Ascola – Rel. Criscuolo

Parole chiave: Obbligazioni e contratti – Contratto preliminare – Preliminare di preliminare – Validità – Condizioni

[1] Massima: Deve considerarsi valida la stipula di un contratto preliminare che precede la conclusione di un successivo accordo preliminare non meramente ripetitivo del primo, mentre è nullo per mancanza di causa il preliminare di preliminare se è seguito da un contratto avente contenuto identico

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1337, 1351

Parole chiave: Inadempimento contrattuale – Responsabilità – Risarcimento del danno da occupazione abusiva – Danno in re ipsa – Valutazione equitativa

[2] Massima: Il promissario acquirente immesso anticipatamente nel possesso dell’immobile che violi l’obbligo di concludere il contratto definitivo è tenuto a risarcire il promittente venditore del danno derivante dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di trarne utilità, che può reputarsi presuntivamente esistente ed essere liquidato in via equitativa.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1218, 1226, 2056

CASO

Nel 1995 i proprietari di un immobile concludevano un contratto preliminare di compravendita, che prevedeva l’immediata immissione dei promissari acquirenti nel possesso del bene e il pagamento di una parte del prezzo; qualche settimana più tardi, veniva sottoscritta una seconda scrittura, con la quale si dava conto del versamento di un’ulteriore somma a titolo di acconto prezzo e veniva individuata la data per la stipula del contratto definitivo, che, tuttavia, non avveniva, nonostante la diffida inviata dai promittenti venditori.

Questi ultimi agivano quindi in giudizio per ottenere la declaratoria di risoluzione per inadempimento del preliminare e per fare accertare la legittimità della ritenzione delle somme versate dai promissari acquirenti, nonché la condanna di questi ultimi al rilascio dell’immobile.

I convenuti costituitisi in giudizio contestavano le domande attoree, sostenendo, in particolare, che il contratto non andava qualificato come preliminare ma quale mero vincolo a non cedere l’immobile a terzi e che la compravendita non si era perfezionata perché l’immobile era stato pignorato.

Le domande attoree venivano rigettate in primo grado, mentre la corte di appello, riformando la sentenza, le accoglieva, ravvisando nell’accordo concluso dalle parti un contratto preliminare e l’inadempimento dei promissari acquirenti, per avere ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto definitivo.

Gli originari convenuti proponevano ricorso per cassazione, lamentando che la corte di appello aveva trasformato in vero e proprio preliminare quello che, al limite, poteva essere considerato un preliminare di preliminare, di cui si sarebbe dovuta dichiarare la nullità.

SOLUZIONE

[1] La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che la corte di appello aveva correttamente accertato la diversità delle due scritture, mediante le quali le parti si sono progressivamente orientate alla conclusione della compravendita. La diversità di contenuto dei due contratti sottendeva un interesse delle parti alla scansione della vendita in più fasi meritevole di tutela, con conseguente validità del preliminare rimasto inadempiuto per fatto e colpa dei promissari acquirenti.

[2] La Corte di cassazione ha confermato la sentenza impugnata anche nella parte in cui aveva riconosciuto il diritto dei promittenti venditori di essere risarciti del danno subito per il mancato godimento del bene, nel cui possesso i promissari acquirenti erano stati immessi contestualmente alla conclusione del primo accordo: la risoluzione per inadempimento del titolo che legittimava il possesso, infatti, rende l’occupazione dell’immobile sine titulo e obbliga l’occupante a ristorare il proprietario per la mancata disponibilità del bene e l’impossibilità di ritrarne utilità.

QUESTIONI

[1] Affrontando il primo motivo di ricorso articolato dai promissari acquirenti, la Corte di cassazione ripercorre l’elaborazione giurisprudenziale che ha recentemente condotto a un ripensamento in merito al riconoscimento dell’ammissibilità di un contratto preliminare con cui le parti si impegnano a concludere un successivo contratto preliminare, in vista della futura e definitiva stipula, fornendo interessanti precisazioni in merito ai requisiti di validità.

Con la nota sentenza n. 4628 del 6 marzo 2015, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno superato l’orientamento restrittivo (patrocinato, tra le altre, da Cass. civ., sez. II, 2 aprile 2009, n. 8038; Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2005, n. 910) che negava la possibilità di ritenere valido e vincolante un contratto che non definisca tutti gli elementi dell’accordo, rimettendo a un momento successivo la determinazione di quelli mancanti (quand’anche questi ultimi abbiano carattere accessorio), ammettendo la possibilità che le parti concludano un contratto preliminare con cui si obbligano vicendevolmente a concludere un successivo contratto preliminare avente per oggetto, quest’ultimo, l’obbligo di stipulare il vero e proprio contratto definitivo, con cui verrà trasferito il diritto di proprietà (nel caso di compravendita). Ciò a condizione che, nella fattispecie concreta, sia configurabile l’interesse delle parti a una formazione progressiva dell’accordo negoziale, basato sull’esigenza di fermare un affare in relazione al quale, tuttavia, sia necessario effettuare verifiche volte ad accertarne la reale praticabilità, ovvero a definirlo in termini più precisi e articolati.

D’altro canto, nella pronuncia annotata viene precisato che deve essere invece negata la validità del preliminare di preliminare, qualora tra primo e secondo preliminare vi sia completa identità, giacché, mancando un contenuto nuovo che dia conto dell’interesse delle parti a concludere un secondo contratto e, in definitiva, l’utilità di quest’ultimo, deve esserne predicata la nullità per mancanza di causa.

Nel caso di specie, tuttavia, la corte di appello aveva accertato che le due scritture, pur essendo entrambe orientate alla stipula del definitivo, avevano contenuto diverso, in quanto con il primo accordo si è determinata tra le parti l’intesa contrattuale e l’oggetto della compravendita, mentre con il secondo si è dato atto dell’ulteriore dazione di una somma in acconto e si è previsto il momento in cui si sarebbe dovuto stipulare il contratto definitivo. Sebbene, dunque, non si fosse in presenza di un vero e proprio preliminare di preliminare (essendosi, in effetti, ritenuto che entrambi i contratti rivestivano la qualità di preliminare), nondimeno è stata correttamente ravvisata la sussistenza di un interesse delle parti, meritevole di tutela, alla conclusione di un accordo a carattere preliminare avente carattere vincolante, il cui inadempimento è fonte di responsabilità.

Di qui, la conferma della sentenza di secondo grado, che aveva dichiarato risolto per inadempimento dei promissari acquirenti il preliminare con cui le parti si erano validamente impegnate a stipulare il contratto definitivo di compravendita.

[2] La Corte di cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado anche nella parte in cui ha affermato il diritto dei promittenti venditori di essere risarciti del danno subito per il mancato godimento del bene consegnato ai promissari acquirenti anticipatamente (ossia contestualmente alla conclusione del preliminare di preliminare).

I giudici di legittimità hanno, a tale proposito, evidenziato che tale pregiudizio deriva direttamente dalla mancata stipula del contratto definitivo ed è, dunque, eziologicamente ricollegabile all’inadempimento dei promissari acquirenti (in precedenza, Cass. civ., sez. II, 20 dicembre 2017, n. 30594, aveva affermato che il promissario acquirente di un immobile che, immesso nel possesso del bene all’atto della sottoscrizione del preliminare, provochi la risoluzione per inadempimento di quest’ultimo per essersi rifiutato di pagare il prezzo, è tenuto al risarcimento del danno da lucro cessante in favore della parte promittente venditrice, che non ha potuto trarre frutti né dal pagamento del prezzo, né dal godimento dell’immobile, atteso che la legittimità originaria del possesso viene meno a seguito della risoluzione del contratto preliminare e l’occupazione dell’immobile si configura come sine titulo).

La sentenza annotata, tuttavia, fa un passo in più, dal momento che sostiene anche che, in caso di risoluzione del contratto preliminare imputabile al promissario acquirente immesso anticipatamente nel possesso dell’immobile, il danno da illegittima occupazione può reputarsi presuntivamente esistente, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene – la cui natura è normalmente fruttifera – e dall’impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile, con facoltà per il giudice di liquidarlo equitativamente ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c. (nello stesso senso, Cass. civ., sez. II, 6 agosto 2018, n. 20545; Cass. civ., sez. III, 9 agosto 2016, n. 16670; Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2014, n. 11992; Cass. civ., sez. III, 16 aprile 2013, n. 9137).

Tale principio non è, peraltro, condiviso da altra parte della giurisprudenza di legittimità, che nega la natura in re ipsa del danno da illegittima occupazione e ne ammette la risarcibilità a condizione che ne venga dimostrata l’effettiva esistenza nella fattispecie concreta, pur potendosi poi addivenire alla sua liquidazione in via equitativa, laddove risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provarne l’ammontare (tra le più recenti, Cass. civ., sez. VI, 20 marzo 2019, n. 7871; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071; Cass. civ., sez. III, 17 giugno 2013, n. 15111).

L’orientamento più restrittivo e meno favorevole per il proprietario poggia sui principi affermati nel celebre intervento nomofilattico di Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, ripreso da numerose sentenze le quali ne hanno dedotto che il danno da occupazione abusiva di immobile non può ritenersi in re ipsa, ovvero coincidente con l’evento (che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno), trattandosi pur sempre di un danno-conseguenza, sicché il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di avere subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non avere potuto, per esempio, locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per avere perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per avere sofferto altre situazioni pregiudizievoli, pur sempre potendosi ricorrere a presunzioni gravi, precise e concordanti. Secondo tale orientamento, sostenere l’esistenza di un danno in re ipsa in tali casi significherebbe affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi l’inadempimento, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno patrimoniale oggetto della domanda risarcitoria, ponendosi a carico del convenuto inadempiente l’onere della prova negativa dell’inesistenza del danno in questione; ciò comporterebbe uno snaturamento della funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

D’altro canto, con la recente sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno pure affermato che la possibilità di riconoscere l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un danno punitivo è strettamente legata alla presenza di una norma di legge che lo contempli espressamente, di modo che, anche sotto questo profilo, non si ravvisano le condizioni per addivenire a una pronuncia risarcitoria in assenza di dimostrazione di un danno effettivo, mancandone la base legale (difettando una disposizione analoga a quella, per esempio, dettata in materia di locazione dall’art. 1591 c.c.).