Querela di falso contro documenti di formazione pubblica. Condizioni e limiti d’impiego
di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF1.L’effetto processuale dell’attestazione del pubblico ufficiale.
L’art. 2699 c.c., definendo l’atto pubblico come “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato”, prevede la necessità di tre elementi: quello oggettivo, inerente al rispetto di determinate formalità e individuato per relationem nelle prescrizioni contenute nella normativa speciale; quello soggettivo, attinente allo status del “notaio” ovvero dell’“altro pubblico ufficiale” che ha redatto il documento; e infine quello c.d. funzionale [in cui Carnelutti, voce “Documento (Teoria moderna)”, in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, 89 vedeva il segno che la legge non si accontenta che l’atto pubblico “sia formato da un pubblico ufficiale, ma dal pubblico ufficiale che sia investito della funzione documentaria”], consistente nella specifica autorizzazione della legge ad attribuire efficacia probatoria “rafforzata” a quanto attestato dal soggetto pubblico.
In presenza di tali elementi, il codice deroga alla regola generale della libera apprezzabilità prevista dall’art. 116, comma 1 c.p.c. e riconosce valore di “piena prova” all’attestazione effettuata dal pubblico ufficiale.
Ciò corrisponde ad un duplice effetto.
La parte che assuma la falsità delle risultanze dell’atto risulta onerata della proposizione della querela di falso: la possibile contestazione della verità di quanto attestato dal pubblico ufficiale viene dunque limitata all’ottenimento di una pronuncia giurisdizionale che ne accerti la difformità dal vero.
Sul piano processuale, il valore di prova piena si traduce così nell’irrilevanza e nella conseguente inammissibilità delle istanze di prova orale vòlte a confutare, fuori dal contesto della querela di falso, la mancata verificazione di quanto invece affermato dal pubblico ufficiale.
2.Le dichiarazioni coperte dal valore di prova piena.
Nulla dice in realtà il codice sull’oggetto dell’attestazione, ossia su quali affermazioni del pubblico ufficiale siano idonee alla pubblica fede, e dunque, in quanto sottratte all’area della libera valutabilità da parte del giudice, alla contestabilità nelle sole forme della querela di falso.
Tale elemento è ricavato dagli interpreti sulla base della tradizionale distinzione tra verità intrinseca ed estrinseca – la sola coperta da pubblica fede – delle attestazioni contenute nel documento (si osserva per inciso che la formula dell’art. 1317 del codice civile del 1865, diversamente da quello attuale, attribuiva espressamente “piena fede” non solo alla “convenzione” ma anche ai “fatti seguiti alla presenza del notaio o d’altro pubblico uffiziale che lo ha ricevuto”; il legislatore del 1940 giustificò il “notevole ritocco” osservando che “l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, non propriamente della convenzione, ma delle dichiarazioni delle parti” e “lo speciale grado di efficacia probatoria non si estende alla sincerità di tali dichiarazioni”).
E’ opinione comune che la pubblica fede investa anche le indicazioni, non espressamente menzionate dalla norma eppure derivanti dalla diretta percezione del reale da parte del pubblico ufficiale, relative al luogo di redazione dell’atto – elemento indispensabile all’accertamento della competenza territoriale del rogante, espressamente richiesta dall’art. 2699 c.c. – e alla data in cui esso è stato formato: in riferimento a quest’ultima, l’efficacia di prova piena è ricavabile a contrario dal fatto che il successivo art. 2704 c.c. considera “certa” l’esistenza della scrittura privata a partire dal momento in cui il suo contenuto è riprodotto “in atti pubblici” (Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947, 206; Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 434; Biorci, L’atto pubblico e gli altri documenti di formazione pubblica, in Il documento nel processo civile, a cura di A. Ronco, Bologna, 2011, 47).
Per le ragioni esposte la giurisprudenza ritiene necessario l’esperimento della querela di falso per la contestazione delle indicazioni temporali riportate dall’ufficiale giudiziario nella c.d. relata di notifica, mentre la pubblica fede non si estende alla veridicità intrinseca delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale quali l’effettiva delega al ritiro da parte di chi ha materialmente ricevuto il plico (Cass., 29 marzo 2016, n. 6046) o l’affermata situazione di convivenza del consegnatario dell’atto (Cass., 24 settembre 2015, n. 18892; Trib. Milano, 9 luglio 2008, in www.plurisonline.it; Cass., 6 giugno 2007, n. 13216; Cass., 11 aprile 2000, n. 4590; Cass., S.U., 15 giugno 1993, n. 6635).
Nei documenti pubblici di formazione notarile sono inoltre coperte da pubblica fede, e non possono dunque essere contestate se non nelle forme della querela di falso, le attestazioni riguardanti l’identità dei dichiaranti: la fonte è l’art. 49, L. 89/1913 come modificato dalla L. 1° maggio 1976, n. 333, che assegna al notaio il compito di verificare l’identità personale delle parti precisando che egli “può raggiungere tale certezza, anche al momento della attestazione, valutando tutti gli elementi atti a formare il suo convincimento” e, se del caso, avvalendosi anche ex art. 49, comma 2 “di due fidefacienti da lui conosciuti, che possono essere anche i testimoni”.
3. Le dichiarazioni implicanti un lavoro di ricostruzione storica ovvero un giudizio da parte del verbalizzante.
Dall’esame dei principali orientamenti sull’individuazione del contenuto estrinseco dell’atto pubblico, emerge quindi che la struttura dell’art. 2700 c.c. attribuisce pubblica fede alla sola descrizione del reale che il pubblico ufficiale ha percepito con i propri sensi, rientrando invece nell’area della libera apprezzabilità qualsiasi attestazione che esuli dalla mera rappresentazione di quanto avvenuto in presenza dell’ufficiale rogante.
Due appaiono dunque le principali ipotesi in cui l’effetto di prova legale non si produce.
La prima riguarda la verità intrinseca delle dichiarazioni che vengono rese dalle parti al pubblico ufficiale in ordine ad accadimenti di cui egli non ha cognizione diretta, e da ciò si ricava, indirettamente, che l’atto pubblico fa invece piena prova riguardo al fatto storico che in presenza del pubblico ufficiale le dichiarazioni sono state effettivamente rese e i fatti descritti sono realmente accaduti. La dottrina, a tal proposito, individua il residuo margine di efficacia di prova legale dell’intrinseco (come tale attaccabile soltanto con querela di falso) proprio in questo “contenuto ‘descrittivo’ dell’attestazione di fatti dichiarativi od operativi, avvenuti in presenza del pubblico ufficiale o da lui compiti” [Comoglio, op. cit., 435; Crisci, voce “Atto pubblico (dir. priv.)”, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 270].
E’ il caso, ricorrente nella prassi negoziale, in cui i soggetti comparsi davanti al notaio si limitano ad affermare che il pagamento del prezzo pattuito è stato corrisposto, ma nessun trasferimento di denaro avviene effettivamente alla presenza dell’ufficiale rogante e, dunque, come pacificamente affermato dalla giurisprudenza, l’efficacia di prova legale può riguardare il solo fatto storico che la dichiarazione è stata resa.
L’effetto di contestabilità con i mezzi probatori ordinari deve pertanto riconoscersi all’ipotesi in cui una delle parti alleghi la difformità tra il prezzo dichiarato in quella sede e quello, già pattuito con negozio simulato, effettivamente corrisposto (Cass., 9 maggio 2013, n. 11012; applica il principio Cass., 30 luglio 1998, n. 7500, che ritiene “ammissibile la prova per testi, dedotta dal terzo, per dimostrare la simulazione di un contratto stipulato per atto pubblico, perché l’efficacia probatoria privilegiata di esso è limitata ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni, senza implicare l’intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all’effettiva intenzione delle parti, come nel caso di dichiarazione di prezzo ricevuto in cambio del bene, difforme dal vero”; Cass., 5 luglio 1994, n. 6346, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Isernia, 6 marzo 2008, in Not., 2008, 232, secondo cui “se quanto risulta dall’atto notarile, pur corrispondendo alle dichiarazioni rese al notaio al momento della stipula dell’atto pubblico, non corrisponde alla comune volontà delle parti o alla volontà di una delle parti, si è completamente fuori dall’istituto della querela di falso, rientrando la fattispecie nel primo caso sotto la disciplina della simulazione e nel secondo caso in quella dei vizi del consenso”).
In sintesi non necessita dunque di essere veicolata nelle forme della querela di falso la contestazione delle dichiarazioni del pubblico ufficiale che costituiscono il risultato di un lavoro di ricostruzione storica.
Come tali, anch’esse sono sottratte all’efficacia probatoria rafforzata poiché frutto di un ragionamento induttivo che non corrisponde allo schema legale della circostanza che l’ufficiale attesta “avvenuta in sua presenza”: esso implica infatti un giudizio critico dei dati raccolti, e con ciò prescinde dalla percezione sensoriale diretta (Rota, I documenti, in La prova nel processo civile, a cura di Taruffo, Milano, 2012, 601).
Un esempio, nella casistica giurisprudenziale, è costituito dalla fattispecie in cui agenti di pubblica sicurezza verbalizzino nel proprio rapporto non soltanto i fatti di cui hanno avuto percezione diretta a partire dal momento in cui sono giunti sul luogo del sinistro, ma anche l’orario dell’incidente o la verosimile dinamica che lo ha prodotto (Cass., 22 ottobre 2013, n. 23977; Cass., 9 settembre 2008, n. 22662; Cass., 26 giugno 2003, n. 10128) o ancora, come precisato da una recente decisione della Cassazione, il “contenuto informativo di quanto appreso o constatato” dai carabinieri in occasione di una relazione di servizio e, nella fattispecie, “l’individuazione della persona del guidatore del veicolo al momento del sinistro” (Cass., 28 luglio 2017, n. 18757).
A tal proposito si segnala una pronuncia di merito (Trib. Legnano, 10 marzo 2011, in www.ilcaso.it) che precisa come il rapporto di polizia faccia piena prova, fino a querela di falso, solo delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza, mentre per quanto riguarda le “altre circostanze di fatto accertate nel corso dell’indagine in seguito ad altri accertamenti”, l’attendibilità del verbale possa essere confutata anche da una prova libera di segno contrario, e, nel caso di specie, ha confermato la sanzione amministrativa comminata ad un automobilista per il passaggio con il semaforo rosso – con violazione dunque dell’art. 146 cod. strad. – sulla base di una ricostruzione della dinamica del sinistro operata “sulla scorta delle dichiarazioni rese nell’immediatezza del sinistro dal conducente di uno dei veicoli coinvolti, da una testimone oculare estranea all’incidente, dai rilievi eseguiti in loco, dalla natura dei danni subiti dai veicoli coinvolti e dalla posizione di quiete degli stessi, dal regolare funzionamento dell’impianto semaforico”.
Lo stesso principio – ossia l’inconfigurabilità di una prova piena in caso di verbalizzazione frutto di ricostruzione storica e non di percezione visiva – è affermato dalla giurisprudenza anche in casi in cui il verbalizzante si limita a semplici deduzioni: è dunque contestabile con prova libera l’affermazione dell’agente accertatore che il soggetto sanzionato avesse “guidato” con patente scaduta, desunta dal fatto che egli fosse “disceso da un automezzo lasciato in sosta poco prima” e non fondata invece sulla diretta osservazione della marcia dell’autoveicolo (Cass., 16 marzo 2011, n. 6196).
Non formano poi prova legale le attestazioni dell’ufficiale derivanti da apprezzamenti soggettivi sulla capacità di intendere e di volere delle persone (Cass., 5 giugno 2014, n. 12960; Cass., 9 marzo 2012, n. 3787; Cass., 27 aprile 2006, n. 9649; ciò ancorché, secondo la giurisprudenza di merito, “l’accertamento del notaio, quale pubblico ufficiale preposto al controllo della mancanza di cause di nullità dell’atto”, possa “ritenersi un significativo elemento di prova della capacità di testare” nelle ipotesi in cui la controparte non abbia “fornito la prova, neppure di carattere presuntivo, del fatto che il testatore fosse incapace di intendere e di volere al momento del testamento, né del fatto che la relativa volontà fosse stata in qualche modo coartata dal soggetto beneficiario”, come affermato da Trib. Lucca, 7 luglio 2016, in www.dejure.it) e, per rimanere nell’ambito della circolazione stradale, la superiorità della velocità di marcia del veicolo rispetto al limite consentito [Malinverni, voce “Atto pubblico (dir. pen.)”, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 273 ss.], salvo che l’eccessiva andatura sia stata visivamente constatata dall’ufficiale, in quanto rilevata da un meccanismo di c.d. “telelaser” e verbalizzata sul momento (Cass., 28 ottobre 2005, n. 21017).
In queste ipotesi, non soltanto non sussiste l’onere della querela di falso ma, al contrario, l’eventuale istanza vòlta all’instaurazione del subprocedimento andrebbe incontro ad una pronuncia di inammissibilità, dal momento che il fatto, non essendo suscettibile di accertamento in termini di falsità o verità, costituisce “percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento” e, come tale, è contestabile con mezzi di prova liberamente valutabili.
Anche in questo caso la giurisprudenza è consolidata: così Cass., 16 maggio 2016, n. 9974, per cui, all’interno delle dichiarazioni contenute in un verbale di accertamento di una violazione del codice della strada, l’efficacia probatoria privilegiata deve essere esclusa sia con riferimento ai giudizi valutativi in esso contenuti, sia con riguardo ai fatti che in ragione della loro modalità di accadimento repentino non siano verificabili in modo oggettivo e abbiano potuto dare luogo a una percezione sensoriale caratterizzata da margini di apprezzamento soggettivo, come si verifica quando la rilevazione riportata sul verbale riguarda il transito mentre il semaforo vietava il passaggio (nello stesso senso Cass., 29 agosto 2008, n. 21816, che ha cassato la sentenza del giudice di pace che aveva dichiarato inammissibili le istanze di prova orale tese a dimostrare che la parte, contrariamente a quanto ricostruito dai verbalizzanti, era transitata “con il rosso”), mentre l’“accadimento repentino” è escluso dalle Corti di merito qualora l’accertamento riguardi la “guida parlando con il telefono cellulare”, che “non implica alcuna attività di valutazione o di elaborazione da parte dell’agente accertatore” e “pertanto, con riferimento al relativo verbale, se non risulta esperito il rimedio della querela di falso, a fronte della fede privilegiata conferita allo stesso dall’art. 2700 c.c. non possono mettersi in discussione le relative risultanze” (Trib. Bari, 27 giugno 2012, in www.dejure.it).